L’espressione “fast fashion“, diventata di uso comune negli ultimi anni, sta a indicare una moda a basso costo ed è un settore che vede un dominatore assoluto, l’azienda cinese Shein, che è riuscita ad accaparrarsi addirittura il 50% del mercato globale. Ma cosa si nasconde dietro l’improvviso successo di questa impresa? A sottolineare i lati oscuri di questo mondo è la denuncia di Milena Gabanelli, che in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera ha raccontato innanzitutto la storia del marchio: nata nel 2008 su idea dell’imprenditore Chris Xu, Shein è arrivata a fatturare 10 miliardi di dollari nel 2020 e ha oggi un valore superiore ai 60 miliardi. L’azienda sfrutta un sistema di algoritmi e analisi dati che rileva le tendenze in evoluzione in tempo reale, riuscendo così a produrre nuovi modelli in appena dieci giorni. Un ritmo impossibile per chiunque altro, con oltre 6.000 nuovi prodotti caricati in un giorno. (Continua a leggere dopo la foto)
Alla popolarità di Shein hanno contribuito anche influencer e star ingaggiate dall’azienda per puntare ai giovani, la fascia di consumatori più attiva. E qui arriviamo al paradosso: una generazione solitamente molto sensibili a temi come la tutela dell’ambiente e i diritti dei lavoratori, compra in massa da un’azienda “che di trasparente non ha niente. Da un rapporto di Bloomberg del 2022, le magliette di cotone vendute da Shein provengono dal lavoro forzato della minoranza Uiguri dello Xinjiang. Questa regione al Nordovest della Cina è uno dei maggiori produttori di cotone al mondo, e la minoranza musulmana è da anni scandalosamente perseguitata e oppressa dal governo cinese”.
Come raccontato anche da Repubblica, la giornalista anglo–algerina Imam Amrani è riuscita a entrare con telecamera nascosta in due delle 700 fabbriche di Shein, nella provincia cinese dello Guangzhou. I lavoratori sono costretti a turni da 17 ore al giorno, con un solo giorno libero al mese, in condizioni igieniche disumane: “Devono produrre 500 capi al giorno e la paga è di 4 centesimi a capo”. Per non parlare dell’impatto ambientale: “Per realizzare una sola t-shirt di cotone sono necessari in media 2.700 litri d’acqua. Questo perché il cotone ha sete e le produzioni intensive devono essere irrigate. Poi ci sono i processi di lavorazione: sgusciamento, tintura, filatura, rifinitura, e ogni fase ha bisogno di tanta acqua. Il processo intensivo richiede poi fertilizzanti chimici e diserbanti che vengono assorbiti dal terreno e inquinano le falde”. (Continua a leggere dopo la foto)
Non bastasse, un’indagine condotta da CBC Marketplace “ha rivelato che alcuni prodotti di Shein contengono piombo, PFAS e ftalati. Una giacca per bambini esaminata conteneva quasi 20 volte la quantità di piombo considerata sicura da Health Canada“. Shein non è ovviamente l’unica a finire sulla lista nera: anche Zara, H&M, Bershka e Pull and Bear sono state accusate di produrre un’enorme quantità di rifiuti tossici e di sfruttare i lavoratori. Da anni, alcune aziende si stanno impegnano (almeno in teoria) in iniziative di maggiore responsabilità sociale. Ma sembra proprio che sia la natura stessa del fast fashion a non sposarsi con un mondo che affronta sfide etiche ed ecologiche.