Lo abbiamo capito, il piano è abbastanza semplice per quanto diabolico: si vuol fare in modo di non mandarci più in pensione. Con la scusa della media vita che si alza, l’idea è quella di alleggerire le casse dello Stato facendo in modo che nel corso di prossimi anni sempre meno persone vadano in pensione, augurandosi poi – in modo macabro – che muoiano il prima possibile. La demografia per il nostro Paese è già scritta e la composizione per età nel 2045/50 – picco massimo dell’invecchiamento in base alle stime – è già nota nei minimi particolari. Gli ultra 65enni sono oggi il 24% della popolazione (14,16 milioni) e sono destinati a diventare oltre il 35% nel 2045/2050, gli ultraottantenni, oggi quasi 4,5 milioni, gli ultranovantenni (circa 800mila) e ultra centenari oggi oltre 20mila, destinati a raddoppiare. Va da sé che stando così le cose, con la popolazione che invecchia, i giovani che fanno meno figli (o se ne vanno all’estero), questo sistema così com’è non è sostenibile. Il cambiamento previsto, però, è ovviamente in peggio.
Quello che propone Alberto Brambilla sul Corriere è esattamente in linea con le decisioni che si prendono in gran silenzio nei palazzi che contano, solo che non si dicono ad alta voce per non perdere voti: “La prima cosa, sia pure molto impopolare ma necessaria per garantire la sostenibilità del sistema per i nostri figli e nipoti già gravati da un enorme e non etico debito pubblico (nel 2025 sfonderemo i 3 mila miliardi di debito e gli oltre 90 miliardi l’anno di spesa per interessi) – sostiene Brambilla – è l’aumento delle età per il pensionamento pur con le flessibilità insite nel metodo di calcolo contributivo”. Vengono dunque riportati una serie di esempi: “Iniziamo con le pensioni e gli assegni sociali che nel 2023 sono circa 820 mila (in continuo aumento) per un costo di 4,1 miliardi. Si tratta di soggetti che in 67 anni di vita hanno versato pochi o zero contributi e quindi zero tasse, sconosciuti al Fisco e all’Inps che però, raggiunti i 67 anni, si ricordano di essere italiani e quindi passano alla cassa senza che nessuno chieda cosa hanno fatto nella vita. L’Inps paga e basta. Non sono né inabili né invalidi civili, Inps o Inail (che in totale ammontano a 4,5 milioni, il 28,6% dei pensionati se si considerano i 110mila pensionati guerra) e quindi sarebbe utile sapere cosa hanno fatto in tutta la loro vita. Sarebbe quindi opportuno, salvo problemi di salute, portare l’età della pensione sociale a 70 anni e da subito introdurre controlli ex ante come accade in molti Paesi Europei dove, superati i 30/33 anni se non si è mai fatta una dichiarazione dei redditi si viene convocati dalle autorità fiscali che chiedono di dimostrare di cosa vivono loro e le loro famiglie”.
Analizza ancora Brambilla: “La maggior parte dei pensionati di vecchiaia in 67 anni di vita non ha versato contributi per raggiungere il minimo (535 euro al mese) e quindi nemmeno 20 anni di contribuzione effettiva (hanno in media almeno 5 anni di contributi figurativi per periodi di disoccupazione, malattia e così via). Anche per questi occorrerebbe adeguare l’età di pensionamento al crescere dell’aspettativa di vita, aumentare a 25 anni per tutti, misti e contributivi, il minimo contributivo e erogare la rendita solo se l’importo a calcolo della pensione è pari a 1,5 volte l’assegno sociale (703 euro al mese). Diversamente la pensione verrà erogata a 70 anni”. Infine, per la vecchiaia anticipata “si dovrebbe partire dai 64 anni adeguati all’aspettativa di vita con almeno 38 di contribuzione e massimo 3 anni (dovrebbe valere per tutte le tipologie di pensioni) di contribuzioni figurative, mantenendo fissi e non adeguabili all’aspettativa di vita i 42 e 10 mesi per i maschi e 1 anno in meno per le donne”. In questo modo, come promette il titolo dell’articolo, “le pensioni saranno uguali per tutti” e “la previdenza sarà salvata”. Prepariamoci perché questo è ciò che ci aspetta, anche perché in linea con i diktat europei.