Mentre Di Maio e Salvini continuano con la loro annuncite, il ministro dell’Economia Tria fissa il paletto che deciderà le sorti dell’intera manovra finanziaria. I due vicepremier possono ancora dire quel che vogliono, ma appare ormai evidente che le cose promesse in campagna elettorale sono irrealizzabili (come molti avevano già previsto prima del 4 marzo analizzando i programmi di Lega e 5 Stelle). I destini del reddito di cittadinanza e della flat tax dipendono in larga parte da un solo numero: quello che il governo scriverà nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza – attesa per il 27 settembre – alla voce rapporto deficit-Pil 2019. Nella bozza del Tria ha distribuito al Presidente del Consiglio e ai due Vicepremier, il numero magico è stato fissato all’1,6%. Oltre questa soglia il ministro dell’Economia non ha intenzione di spingersi. E questo porta con sé diverse conseguenze.
L’1,6% non è un dato casuale: rappresenta la flessibilità massima che l’Europa può concedere all’Italia senza essere costretta ad aprire una procedura d’infrazione. Cioè un intervento punitivo che abbatterebbe la fiducia dei mercati e innescherebbe la speculazione, facendo lievitare gli interessi sul debito pubblico e costringendo il nostro Paese, già a corto di soldi, a fare nuovi tagli per liberare nuove risorse. Trattati alla mano, l’anno prossimo l’Italia dovrebbe ridurre il deficit strutturale (ossia il dato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum varate dal governo) dello 0,6%.
È già sicuro che non lo faremo, ma la procedura d’infrazione scatterà soltanto se la correzione non avverrà affatto. Basterà cioè un miglioramento dello 0,1% perché Bruxelles si limiti a un semplice richiamo nei confronti del governo di Roma (com’è accaduto quasi sempre negli ultimi anni). E il deficit-Pil all’1,6% corrisponde proprio a una correzione del deficit strutturale pari allo 0,1%. La strada dello scontro frontale con Bruxelles e con i fondi speculativi non è percorribile. A malincuore, Salvini e Di Maio se ne sono resi conto e – dopo aver “fatto danni” con “tante parole”, per dirla con Mario Draghi – da qualche settimana hanno moderato i toni, riuscendo a raffreddare lo spread.
Il problema ora è capire quali saranno le conseguenze sulla prossima legge di Bilancio, visto che fra la cancellazione degli aumenti Iva (12,4 miliardi) e le spese correnti, lo spazio per rimanere entro l’1,6% non è molto. La Lega ha già accantonato il progetto originario della flat tax. Il mostro da 50 miliardi che avrebbe permesso ai ricchi di pagare le stesse tasse dei poveri non vedrà mai la luce. Ora si punta a ridurre le aliquote Irpef da cinque a tre, ma solo nel 2020. I leghisti hanno rinunciato anche all’ipotesi di tagliare l’aliquota Irpef più bassa dal 23 al 22%, misura che sarebbe costata 4 miliardi e che avrebbe portato ai contribuenti in media 150 euro in più all’anno. Resta invece sul tavolo l’estensione del regime forfettario a tutte le partite Iva che fatturano fino a 100mila euro l’anno (il limite attuale è di 25-50mila euro, a seconda dell’attività). Il costo sarebbe di un miliardo e mezzo. Altro che 50.
Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, la situazione è più complessa. I grillini si sono rassegnati a restringere il perimetro della misura: la proposta iniziale prevedeva di concedere 780 euro al mese ai 2,8 milioni di famiglie italiane che vivono sotto la soglia di povertà relativa, ma poi Di Maio ha parlato in un’intervista di “5 milioni di persone”, cioè i singoli individui che vivono in condizioni di povertà assoluta.
Il costo dell’intervento scende così da 17 a 9 miliardi l’anno, che si ridurrebbero a 4-5 se la misura diventasse operativa da luglio (i pentastellati preferirebbero maggio, mese in cui si terranno le elezioni europee). Il governo ha già in tasca i 2,6 miliardi stanziati dall’esecutivo Gentiloni per il reddito di inclusione, perciò al Tesoro non resterebbe che racimolare un altro paio di miliardi.
La maggioranza ha valutato anche l’ipotesi di cancellare gli 80 euro renziani e di far scattare gli aumenti dell’Iva per avere a disposizione una ventina di miliardi in più. Ma entrambe le idee sono state accantonate: la prima perché colpirebbe 11 milioni di contribuenti, la seconda perché un rincaro della tassa sui consumi sarebbe percepita dagli elettori come alto tradimento. L’unica alternativa, perciò, è cambiare il contratto di governo fingendo che nulla cambi.