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Obbligo di indicare lo Stabilimento di produzione in etichetta: per Tribunale di Roma è una legge “inapplicabile”

La legge che obbliga a indicare lo stabilimento di produzione degli alimenti in etichetta non può essere applicata in quanto il testo approvato non è legittimo. E’ questa la sentenza della giudice Angela Salvio della diciottesima sezione civile del tribunale di Roma, che ha dato torto all’ex viceministro Andrea Olivero il quale, oltre ad avere querelato per diffamazione l’avvocato Dario Dongo (anche direttore del sito di informazione alimentare Great Italian Food Trade ed esperto di diritto alimentare), ha presentato ricorso al giudice civile per ottenere la rimozione di un suo articolo. Dongo, in un articolo pubblicato sul sito da lui diretto Gift, aveva affermato l’illegittimità del decreto legislativo 145/17, mediante il quale è stato tardivamente reintrodotto in Italia l’obbligo di indicare sulle etichette lo stabilimento di produzione degli alimenti. La conseguenza è che d’ora in poi le aziende che non riportano sulle confezioni il luogo di produzione non possono essere sanzionate.


Il decreto legislativo 145 del 2017, pubblicato in Gazzetta Ufficiale nell’ottobre 2017, era stato accolto con favore dall’opinione pubblica e tutte le associazioni di consumatori, che ne avevano chiesto a lungo l’approvazione. Tutto è nato da un regolamento europeo, il 1169/2011, che ha rivoluzionato l’etichettatura degli alimenti nel vecchio continente introducendo diverse tutele per i consumatori. Ma in quel regolamento, che ha fatto decadere tutte le norme nazionali di settore, non era prevista una norma a noi molto cara: l’obbligo, appunto, di indicare con precisione il luogo in cui è stato prodotto quel cibo. Una questione di trasparenza e di sicurezza alimentare. Grazie a questa informazione i consumatori possono infatti compiere delle scelte consapevoli, privilegiando il made in Italy a scapito di tanti prodotti con marchi simil-italiani ma realizzati all’estero. L’indicazione dello stabilimento aiuta anche in caso di allerta alimentare: le autorità possono infatti risalire alla fonte accorciando di molto i tempi di intervento. Per queste ragioni diverse aziende già avevano deciso, prima ancora che la legge venisse approvata, di mantenere l’indicazione in etichetta. Ma allora perché una legge così ben accolta non può essere regolarmente applicata?

Una mancata notifica
Lo scorso governo ha approvato la nuova norma non tenendo conto che trattandosi di una legge potenzialmente in conflitto con la normativa europea, l’Italia avrebbe dovuto prima notificarla alla Commissione perché la analizzasse e, se necessario, suggerisse modifiche. Come ha spiegato il quotidiano La Repubblica, in questo modo l’Italia avrebbe dunque agito come se volesse mantenere una legge (quella sullo stabilimento di produzione del 1992) già esistente. Ma l’entrata in vigore della normativa Ue l’aveva già fatta decadere nel 2013.
Il risultato, come ha spiegato il giudice, è “la inapplicabilità della normativa interna e la non opponibilità ai privati”. Significa che le aziende alimentari possono sostenere, con ragione, il vizio procedurale della legge e che i giudici nazionali sono tenuti a disapplicarla.

 

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