Gli italiani (e il pubblico di tutto il mondo, dato che la pellicola è già stata venduta anche all’estero) sono in trepidante attesa per quello che sembra essere il film dell’anno: “Il primo Re” di Matteo Rovere (con Alessandro Borghi e Alessio Lapice) sta per arrivare al cinema: nelle sale il 31 gennaio in circa 300 copie, un peplum come non se ne facevano da decenni ma allo stesso tempo come non se ne sono mai fatti. Un film dall’impianto produttivo ambizioso, costato 9 milioni di euro (in gran parte stranieri), pensato per la sala (“abbiamo rifiutato proposte per andare solo in streaming”). Romolo e Remo avvinghiati in un rapporto fraterno viscerale, un amore estremo che diventa violenza nell’incomprensione reciproca, a causa della diversa visione del mondo e della divinità.
Una storia di 2800 anni fa che parla dell’oggi, secondo il regista Matteo Rovere, che del mito fondativo di Roma ha tenuto “quegli elementi ricorrenti che troviamo in tutti quegli altri sceneggiatori – siano Livio, Plutarco o Ovidio – e nei quali anche lo spettatore di oggi si può riconoscere: due fratelli gemelli, una visione diversa del rapporto con la divinità una più laica e una più devota, il bisogno di trovare una terra”.
E aggiunge Rovere: “E quell’idea di una civiltà nata da un fratricidio, fondata su un dolore profondo, formata da tribù diverse, trenta o più, di emarginati, di apolidi in cerca di un posto dove costruire una capanna”. È una grossa sfida questo film, anche perché è un racconto estremamente realistico parlato in protolatino, la lingua dell’VIII secolo A.C. che, verosimilmente, più si avvicina alla parlata dell’epoca (“era un elemento necessario”, dice Rovere), girato nei boschi dei Monti Simbruini, Monti Lucretili, il Monte Cavo con la sua via sacra, il Monte Ceraso nel parco di Veio.
Alessandro Borghi è Remo e Alessio Lapice è Romolo. “Dopo i mesi passati a prepararci fisicamente e a imparare il protolatino, che ho capito non dovevo studiare a memoria ma piuttosto ascoltare per ore e ore finché entrasse nella mia mente – racconta Borghi – ci siamo trovati sul set e la prima sequenza che abbiamo girato è stata quella notturna nel tempio. Era settembre eppure sentivamo un freddo indescrivibile, ci siamo guardati negli occhi e chiesti: ‘Come faremo a resistere per 8 settimane?’. Certe battute non riuscivamo a pronunciarle perché avevamo le mandibole bloccate”.
“Poi sarà stato il passaggio alle scene diurne o noi che ci siamo abituati il resto della lavorazione è andata meglio. Fin quando poi – a novembre – abbiamo girato l’alluvione del Tevere, in un’enorme piscina lunga quarantacinque metri”. Il film, scritto con Francesca Manieri e Filippo Gravino, si è basato sulla consulenza di studiosi “archeologi, antropologi, latinisti che ci hanno aiutato moltissimo per ricostruire il contesto storico – racconta il regista – poi però ci siamo sentiti liberi di raccontare una storia d’avventura, un mito pur nell’estremo realismo”.
“Il nostro desiderio era realizzare un film storico mai fatto prima, una storia che è alla base della civilità occidentale. Questo mondo antico, violento e respingente, in realtà parla all’uomo di oggi. Ancora oggi, che fondiamo le nostre vite sulla scienza e sulla tecnologia, continuiamo a sentire il richiamo dell’inconoscibile e dell’ignoto. Inoltre il finale del film, il prologo della fondazione di Roma, è un ragionamento sull’imperialismo e sulla società che si costruisce attraverso il politico che vale ancora oggi”.
Ancora Alessandro Borghi aggiunge: “Pensare alla fatica, il freddo, il fango, stare fuori casa per due mesi… Ecco, tutti questi sono elementi della lavorazione, ma quello che mi ha stupito è stato il fatto che dopo esserci preparati con la spada, la lotta, capire come uccidere un cervo quando credevo di avere tutto sotto controllo sono arrivato sul set e ho iniziato a girare: nudo, di notte, sotto la pioggia”.
“Il rapporto con la terra ha cambiato tutto quanto. Per settimane nessuno si è lavato, quando siamo stati nel primo albergo ci hanno chiesto di rimborsare il costo delle lenzuola che non venivano più pulite, una sorta di Santa Sindone”.
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