Lo “ius culturae” ha iniziato il suo iter in Commissione affari costituzionali alla Camera. Era ora. È da tempo che ce n’è bisogno e la parentesi gialloverde, guidata dalla deriva fascista-sovranista di Salvini, ha rallentato tutto. Ma ora qualcosa si muove. L’attuale legge che regola la cittadinanza prevede che la cittadinanza per gli immigrati possa essere acquisita dopo aver vissuto ininterrottamente sul territorio nazionale per almeno 10 anni. I tentativi di riforma prevedono che l’acquisizione della cittadinanza venga regolata dal principio dello ius culturae, cioè si può diventare cittadini italiani dopo aver concluso un ciclo di studi in Italia.
Ma cosa significa vivere in Italia, sentirsi italiani, parlarne la lingua, viverne i costumi e le abitudini, ma essere considerati comunque stranieri per la legge? TPI lo ha chiesto a Diana, giovane universitaria di origini ucraine, Omar, studente 24enne arrivato in Italia dalla Tunisia a 6 mesi, e a Chouaib, che oggi ha 26 anni ed è arrivato dal Marocco quando aveva un anno. Le loro testimonianza sono fondamentali per provare a metterci nei loro panni.
Diana vive in Italia da 15 anni, ma non è ancora cittadina del nostro paese, pur sentendosi italiana a tutti gli effetti. “Sono di origini ucraine, sono arrivata in Italia a nove anni e ho fatto due anni di elementari, e poi medie e liceo classico qui. Adesso sto facendo la magistrale di editoria e giornalismo. All’università avevo fatto una richiesta di alloggio per vivere nello studentato, ma sono finita tra gli studenti stranieri, per i quali sono limitati. Per questo motivo non ho ricevuto l’alloggio”.
“Durante il periodo del liceo ho vinto un concorso che mi permetteva di andare a fare un viaggio studio di tre settimane in Inghilterra ma quando ho presentato i documenti per il visto, con il mio passaporto ucraino, questo mi è stato rifiutato. Pur avendo vinto il concorso e avendo tutte le carte in regola come gli altri vincitori non sono riuscita ad andare”, racconta ancora Diana.
Un’esperienza simile a quella di Chouaib, che racconta: “Quando ero alle medie ho dovuto rinunciare a una gita a Londra con i miei compagni perché la prassi era complicata. Vedi i tuoi compagni che vanno all’estero e tu non puoi andarci, e se riesci ad andare devi stare attento al tuo permesso di soggiorno. Se lo perdo non posso più rientrare in Italia. È assurdo dover richiedere un permesso per poter risiedere nel paese in cui sei nato”.
“È una cosa fuori da ogni normalità. Ho amici che sono partiti per l’Australia per fare il working holiday, ma io non posso farlo. Vorrei provare anche io quell’esperienza però non posso”, racconta il 26enne, che non ha mai votato in Italia.
Omar, italiano a tutti gli effetti, anche se nato in Tunisia, ma che si sente prigioniero a casa sua. “Io de facto sono italiano, parlo italiano, i miei amici e la mia famiglia si trovano in Italia. Questo luogo mi appartiene, l’Italia è casa mia. Ma non essere italiano per la legge ti preclude molte cose, banalmente i viaggi studi, o l’erasmus. L’idea che per rimanere nel mio paese devo comunque dimostrare qualcosa”.
“Credo che la riforma sia solo un atto formale, riconoscere ciò che già siamo. Nel 2017 ci fu una mancanza di coraggio, di analisi e di visione del paese. Nel paese reale io e i miei coetanei non abbiamo alcuna differenza. Nel paese reale io sono italiano. Sono le mie carte che dicono il contrario. Siamo indietro di 20 anni. C’è bisogno di coraggio”.
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