Carla Mauro, 53 anni, romana, medico di base a Selva Candida, quartiere a nord della città, specializzata in Microbiologia, è uno dei sanitari che alla fine di marzo, in piena emergenza, hanno risposto alla chiamata del governo per dare una mano nelle zone più colpite dal coronavirus. Dopo qualche settimana di lavoro nell’ospedale di Piacenza la dottoressa Mauro ha contratto il coronavirus. E’ stata ricoverata in uno dei reparti dove fino a poco prima lavorava, curata dai colleghi: “Se non avessi preso il Covid-19 non avrei capito così bene cosa hanno provato tutti i pazienti che ho curato prima di ammalarmi – ha affermato la dottoressa a la Repubblica -. Questo virus mi ha fatto comprendere una volta di più cosa significa stare dall’altra parte”. Per Carla un impegno non insolito, visto che lavora con i migranti nel centro di prima accoglienza di via Vinovo, nella Capitale, e nel 2002 ha fondato la Onlus MagicAmor con la quale ha costruito 23 scuole, un ospedale, un centro di istruzione per 500 bambini e un orfanotrofio – “un po’ il mio cuore” – nella foresta della Repubblica Democratica del Congo e nella capitale Kinshasa.
Una volta guarita è stata trasferita in un centro militare riconvertito per i pazienti in buone condizioni ma non ancora negativi. Lì sta aspettando che i tamponi le restituiscano la libertà di tornare a casa. “Sono in un sano – o non sano, se vogliamo – connubio con il virus: sta provando a usarmi come macchina di replicazione ma non intendo essere sua complice. Quindi aspetterò”, ha spiegato Carla. Una situazione difficile quella che ha trovato la dottoressa Mauro al suo arrivo in ospedale a marzo: “Tutto era dedicato al Covid: i reparti erano stati trasformati in Emergenza, da 1 a 7, più Malattie infettive e Medicina d’urgenza. Il Pronto soccorso era sempre pieno, la Terapia intensiva strapiena. Mi sono trovata più volte a chiedere agli anestesisti di spostare in terapia intensiva dei pazienti, anche sotto i 60 anni, e sentirmi rispondere con le lacrime agli occhi che non c’era posto”.
Anche in una condizione di totale emergenza, per Carla il rapporto con i suoi pazienti è sempre stato al primo posto: “Temevo che le mascherine, la visierina potessero precludermi il contatto con loro, che per me è molto importante, ma mi sono detta che se uno vuole comunicare bastano gli occhi. E ho cercato di dare il massimo: ho provato a incoraggiarli, a spiegare più chiaramente possibile cosa gli stava succedendo, ho urlato per farmi sentire da quelli che indossavano il casco per respirare, che fa un rumore tremendo”.
Un’esperienza che sicuramente lascerà un segno indelebile nella mente e nel cuore di Carla, della quale porta con sé i momenti più emozionati: “Una sera a fine turno ho dovuto dire alla figlia di una paziente che alla madre, anziana, non restava molto tempo. Mi ha chiesto di andare a darle una carezza da parte sua. Si trattava di rivestirsi e di usare un dispositivo in più per far capire a quella donna che la figlia le era vicina. Ho pensato che ne valesse la pena. Le ho tolto la cupoletta del casco – e l’ho fatto consapevolmente sapendo che era rischioso – e le ho detto: “Sua figlia mi ha detto di farle una carezza, deve sentirla come fosse sua”. Lei ha capito e mi ha sorriso. E poi non posso dimenticare un anziano con un decadimento cognitivo. Stava quasi sempre addormentato, tenerissimo. Un giorno l’ho svegliato per parlarci. Gli ho detto che stava andando bene, che ce la stava facendo, che i suoi esami erano bellissimi. E l’ho visto schiudersi in un’espressione così dolce che me la ricorderò per sempre”.
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