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L’ infettivologa napoletana messa alla porta dall’università Vanvitelli: “Licenziata per poter aiutare il Nord”

Un gesto di solidarietà è costato il posto. E’ quello che è accaduto a Giuseppina Brancaccio, 40enne infettivologa napoletana, costretta a lasciare il nuovo posto di lavoro per aiutare colleghi e pazienti delle aree più colpite dal Covid. La dottoressa, che racconta a Repubblica la sua storia, ha messo in luce un’amara verità di un’istituzione, l’Azienda universitaria Vanvitelli, che le ha rifiutato il nullaosta per un comando a Padova. “A Napoli mi sono specializzata e ho conseguito il dottorato, facendo la borsista – ha spiegato Brancaccio -. Due anni fa vinsi un concorso per un posto di ricercatore a tempo determinato in Malattie infettive all’università di Padova. Ero orgogliosa, di me e del Sud, per avercela fatta solo grazie al mio curriculum. Sono stati 24 mesi di esperienze, scientifiche e umane”.

Quando però a settembre scorso, venne indetto dal Vanvitelli un concorso per una posizione professionale che avrebbe fatto avanzare di carriere l’ infettivologa, la donna fece subito domanda: “A settembre dell’anno scorso seppi di un concorso bandito dalla Vanvitelli per un posto, anche qui da ricercatore, di tipo B. Vuol dire che rispetto al ruolo rivestito a Padova, dopo tre anni e, successivamente a una valutazione scientifica, sarei stata stabilizzata e inquadrata come professore associato. Per me la Vanvitelli rappresentava un avanzamento di carriera con l’opportunità di far parte da docente dell’ateneo dove mi sono formata”. Un bando che per altro la Brancaccio vinse poi a pieno titolo: “Presi servizio a dicembre, ma non fu semplice lasciare Padova, dove lavoravo bene, apprezzata dal direttore, il professore Andrea Crisanti, e dai colleghi. Tanto che fino all’ultimo hanno sperato che rinunciassi a trasferirmi. Ma dovevo farlo, oltre che pe la promozione, anche per tornare nella mia terra e tra i miei affetti. Era l’opportunità per interrompere una fuga”.
L’arrivo della la pandemia da Covid-19 però mise l’ infettivologa di fronte a un bivio: “Mai avrei pensato di dover scegliere tra il dovere di correre in aiuto e la necessità di salvaguardare la carriera. Un focolaio tra i più gravi, dopo quello lombardo di Codogno, era scoppiato nel Veneto, a Vò Euganeo. E così, ai primi di marzo fui contattata dall’azienda ospedaliera di Padova, attraverso il manager: mi chiedevano la disponibilità a dare una mano, tornando lassù per un periodo limitato. Dissi subito di sì. Ma dovetti chiedere l’autorizzazione all’ateneo Vanvitelli, mio datore di lavoro. E da qui ebbi un rifiuto. Eppure sarebbe stato un gesto di solidarietà istituzionale”. Secondo la dottoressa, la motivazione addotta dalla struttura ospedaliera fu che l’emergenza c’era anche in Campania, nonostante a quel tempo non ci fosse un allarme come quello vissuto in Veneto.
Dopo il rifiuto del Vanvitelli, la Brancaccio non ebbe dubbi sul da farsi, anche se avrebbe comportato per lei delle conseguenze amare: “Mi sono ritrovata in una situazione paradossale: costretta a licenziarmi, e così in pochi secondi ho dovuto rinunciare ai traguardi raggiunti con tanti sacrifici perché sentivo di dover aiutare i colleghi e i pazienti delle aree più colpite”, ha raccontato la dottoressa. Un gesto di grande coraggio e profondo senso etico, che al momento non ha purtroppo premiato la donna neanche qui a Padova. “Al futuro cerco di non pensarci. Ho un contratto a termine, di sei mesi, si vedrà. Ormai le cose stanno così, sono tornata precaria…”.

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