Quanto vale Apple? Quanto il Pil dell’Italia. Iniziamo subito con il dare questo dato che fa paura. Duemila miliardi di dollari. Cosa vuol dire? Che la capitalizzazione in Borsa di Apple equivale, più o meno, alla ricchezza prodotta in un anno in Italia. Come racconta Giuseppe Sardna sul Corriere della Sera, “la società guidata da Tim Cook è la prima a superare una soglia che solo qualche tempo fa sembrava fantascienza. Nel 2019 le vendite hanno raggiunto i 290 miliardi di dollari, rispetto ai 216 del 2018: un aumento del 34%. Nel secondo semestre del 2020, in piena emergenza Covid, il giro d’affari dell’azienda è salito comunque dell’11%. Il Pil Usa sprofondava del 32,9% nel secondo trimestre. Ma negli uffici di Apple arrivavano resoconti da record: vendita degli iPad, +31%; computer Mac, +22%; accessori vari, +17%; servizi di telefonia e altro, +15%. Persino la domanda degli iPhone aumentava del 2%, nonostante il blocco della produzione in Cina causato dal coronavirus, cui si sono aggiunte le tensioni tra i governi di Washington e Pechino”.
Ed è proprio su quel fronte che ora si indaga. Perché dalla Cina arrivano notizie su una vicenda che lega l’azienda guidata da Tim Cook allo sfruttamento del lavoro nell’area dello Xinjiang, nel nord ovest della Cina. In particolare la multinazionale americana avrebbe acquistato in passato uniformi per i suoi shop mondiali da aziende dell’area balzata tristemente all’attenzione delle cronache mondiale per la deportazione e lo sfruttamento lavorativo degli uguri, etnia turcofona di religione musulmana che vive nel nord ovest della Cina, con la quale Pechino combatte informalmente da anni una guerra per frenare le spinte separatiste che interessano l’area.
Appena una settimana fa Tim Cook aveva dichiarato che Apple non avrebbe tollerato prodotti provenienti da sfruttamento lavorativo o frutto di lavori forzati, ma come afferma il Guardian, si è rifiutato di commentare se l’azienda non abbia importato prodotti di questo tipo in passato. Inoltre, Apple ha declinato di rispondere alla domanda di dove provenga invece il cotone grezzo. Ma non è tutto: “Apple viola il diritto del lavoro in Cina”. È questa l’altra accusa mossa dal China Labour Watch (un’organizzazione non governativa Usa) che pubblica un report secondo cui l’azienda guidata da Tim Cook, insieme a Foxconn, ad agosto avrebbe impiegato nella maggiore fabbrica di iPhone a Zhengzhou, in Cina, più della metà della forza lavoro in assunzioni temporanee: i cosiddetti lavoratori “anomali”, soprattutto studenti.
L’azienda rimanda le critiche al mittente. “La maggior parte delle accuse sono false – scrive Apple in una nota -. Tutti i lavoratori ricevono un’indennità adeguata, compresi stipendi e premi straordinari: tutto il lavoro straordinario è stato volontario e non ci sono prove di lavoro forzato”. Ma i lavoratori guadagnano un salario di base di 2.100 yuan (295 dollari), “insufficiente per il sostentamento di una famiglia che vive nella città di Zhengzhou”. E Foxconn ha confermato che un’analisi delle sue attività a Zhengzhou “ha rilevato alcuni problemi di rispetto dei contratti di lavoro. Tuttavia abbiamo verificato che ai lavoratori sono stati pagati tutti gli straordinari e i relativi bonus”.
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