In un momento storico come quello che stiamo vivendo, per le imprese italiane è fondamentale espandersi all’estero e aprirsi a nuovi mercati. La recessione dell’economia degli ultimi anni decenni ha spinto molte aziende a esplorare mercati non solo europei ma spesso intercontinentali, in particolare in quei settori che sono trainanti per la nostra economia e che rappresentano il Made in Italy nel mondo: abbigliamento, arredamento e agroalimentare (“le tre A”, cui si aggiunge anche l’Automazione industriale), o altrimenti dette “le tre F”: Food, Fashion, Furniture.
Nel contempo si è affermata la figura dell’export manager, un consulente che aiuta le aziende a pianificare e realizzare lo sviluppo del business sui mercati esteri. Esperto di marketing, ma anche di diritto commerciale internazionale e di vendite, l’export manager si occupa di analizzare, pianificare, organizzare e implementare tutte le attività necessarie a vendere i prodotti italiani all’estero nell’ambito di una strategia definita.
Ed è proprio quest’ultima frase che meglio sostanzia la sua figura professionale, perché in particolare le aziende a gestione familiare, ma anche quelle mediamente strutturate, molto spesso si lanciano nei mercati esteri senza una adeguata pianificazione delle attività. E allora si affrontano costi molto alti, si fanno scelte sbagliate, si rischiano conseguenze economiche anche pesanti nel caso di spedizioni andate male o invalidazione delle etichette di prodotto, solo per fare alcuni esempi.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Addari, amministratore unico di Top Solutions, azienda di consulenza con sede in Abruzzo e Marche che dal 2003 si occupa di export management in particolare per i settori agroalimentare e arredamento.
1. Come una startup
“Le aziende che decidono di svilupparsi all’estero dovrebbero comportarsi come le startup”: esordisce così Alessandro alla nostra domanda su consigli e suggerimenti per chi vuole vendere all’estero.
Si, perché nonostante la propria impresa in Italia sia ben avviata e florida, per posizionare i propri prodotti nel mondo è importante approcciare i mercati come chi inizia da zero.
“Questo è il primo errore che fanno le aziende, e il più comune: il marketing ci insegna che le 4 P (Product, Price, Place e Promotion) vanno ripensate completamente quando si decide di vendere all’estero e devono essere precedute da una attenta analisi di Marketing Strategico. Non si tratta solo di reperire contatti di buyer e distributori dei nostri prodotti o di aprire dei punti vendita in altri paesi, occorre piuttosto comprendere, prima di tutto, dove concentrare i propri investimenti, comparando i sistemi paese sul fronte del potenziale, dei rischi e delle opportunità, sviluppando una proposta di valore competitiva.
Altre domande chiave da porsi:
– quali sono i competitor e in cosa il nostro prodotto si differenzia
– in quale segmento di mercato posizionarsi, analizzando i comportamenti e le aspettative dei potenziali acquirenti
– come sviluppare un prodotto / servizio competitivo
– come ripensare la strategia di comunicazione, promozione e distribuzione alla luce di tutte le considerazioni precedenti.
In sintesi, bisogna ripensare le strategie di marketing e di vendita ex novo.
Un lavoro che un’azienda di piccole dimensioni non è spesso preparata ad affrontare da sola. Perché la cultura, l’economia, le normative e le abitudini dei consumatori del paese di destinazione sono diverse da quelle di casa nostra.
2. Questioni organizzative
Chi fa che cosa? Sarà lo stesso team di persone che gestisce le vendite in Italia ad occuparsi delle vendite all’estero? Evidentemente no, nonostante anche questo sia un errore piuttosto comune, almeno ai piani alti del management. Nominare un responsabile commerciale per l’estero è sicuramente una buona idea, ma non è risolutiva al 100% della questione: come abbiamo già detto la vendita è l’ultima parte di una catena di attività che vengono prima e che sono indispensabili per raggiungere i risultati desiderati. “In questo senso l’export manager può essere di grande aiuto – sottolinea Alessandro: avendo una competenza specifica nelle attività da svolgere, può essere un ottimo supporto in fase iniziale anche per quelle aziende che hanno già delle risorse interne e vogliono potenziarle. Acquisire il know how necessario può essere oneroso, mentre affidarsi a un professionista riduce il rischio di errore e i costi di acquisizione di tutte competenze necessarie”.
Alcune società di consulenza offrono servizi di outsourcing 100% dell’export adatti, ad esempio, alle piccole aziende manifatturiere che non possono investire in risorse umane super qualificate da dedicare all’attività di export.
3. Darsi degli obiettivi
Export è una parola troppo generica. Quali paesi? Quali mercati di quali paesi?
Sceglierli, studiarli, analizzarli è fondamentale prima di pianificare e implementare attività concrete. “La prima cosa che tutte le aziende fanno è investire risorse economiche nelle fiere: non è una cosa sbagliata di per sé, ma va inserita all’interno di una strategia più ampia e di più lungo raggio. Deve, cioè, essere un’azione che fa parte di un progetto, non un’azione isolata.
E così si può pensare di darsi degli obiettivi concreti e scalabili che necessariamente partono da un posizionamento del brand (prodotto e/o azienda) nel paese di destinazione, con una misurazione esatta della sua percezione da parte dei consumatori”. In questo senso il digitale può aiutare molto con le campagne di comunicazione sui social network, ma pensiamo anche al guerrilla marketing: si può preparare il terreno in vario modo all’arrivo di un nuovo prodotto in un paese straniero, ma la cosa fondamentale è raccogliere quanti più feedback possibili e utilizzarli come fonte di informazione sulla base della quale prendere decisioni.
4. Immagine e brand reputation
Accanto a un’ampia fascia di aziende medie italiane (pensiamo all’arredamento e al design, per esempio) che esportano all’estero, c’è anche un gran numero di aziende molto piccole che producono prodotti di eccellenza, in particolare nel settore agroalimentare.
In questo caso “testare” la bontà di un prodotto da parte di un buyer straniero è piuttosto semplice, ma spesso ci sono elementi “esterni” che ostacolano o rendono molto complicata l’attività di export, come l’immagine e la brand reputation. Sulla prima le aziende italiane registrano un ritardo grave e pesante nei confronti delle aziende di molti paesi occidentali: pensiamo a tutti i prodotti italian sounding venduti negli USA, che spesso hanno un packaging accattivante e studiato nei minimi dettagli, in grado di trasmettere molto meglio di tanti altri prodotti italiani il senso del design e dell’estetica di prodotto per il quale dovremmo essere famosi all’estero. Della seconda invece molto spesso le piccole aziende a conduzione familiare non hanno una percezione e una consapevolezza sufficienti: non si rendono conto che avere un sito web ben fatto è indispensabile, che una presenza sui social network gestita in maniera professionale è assolutamente necessaria, e che un’attività di PR, sia in Italia che all’estero, può essere un passo significativo sulla strada del raggiungimento dei propri obiettivi prima ancora di acquistare un costoso stand espositivo in una fiera di settore.
5. L’imprenditore investe
Infine, last but no least, Alessandro ci ricorda che “l’imprenditore investe, per definizione: questo significa che vendere all’estero non corrisponde nell’immediato a un mero incremento delle vendite, quanto piuttosto a un investimento economico che, se ben pianificato e organizzato, darà nel tempo buoni risultati”.