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Draghi al Quirinale, lo stop di Salvini: “Pericoloso per l’Italia”

L’assalto del centrodestra rischia di mettere all’angolo la candidatura di Mario Draghi al Quirinale. A rompere gli indugi è stato Silvio Berlusconi. Nella serata di sabato il leader di Forza Italia ha ritirato ufficialmente la sua candidatura al Colle. Ma, contestualmente, l’ex premier ha posto il veto sull’ipotesi che Draghi si trasferisca lì da Palazzo Chigi. Una doccia fredda per l’ex banchiere che ora deve incassare anche il no di Matteo Salvini. Il muro del leader leghista contro la sua candidatura rischia però di indebolire anche la sua azione di governo.

Mario Draghi e Matteo Salvini

“È stata una domenica di lavoro utile, ho sentito e raccolto idee, proposte. – dichiara Salvini di fronte ai giornalisti in piazza Monte Citorio – Ringrazio a nome di tutto il popolo del centrodestra e a nome di tutti gli italiani il presidente Berlusconi per la generosità, per la sua scelta. Mi dispiace che da Letta arrivino dei no pregiudiziali. E no a Berlusconi e no a qualsiasi proposta che arrivi dal centrodestra. Non è il modo migliore per scegliere un capo dello Stato nella maniera più veloce possibile”. Il suo riferimento è al no espresso dal segretario del Pd all’ipotesi di un presidente della Repubblica di area centrodestra.

“Ribadisco che togliere Draghi da presidente del Consiglio sarebbe in questo momento pericoloso per l’Italia in un momento difficile. – ecco la doccia fredda sulla candidatura di Draghi – Con le bollette che stanno aumentando, con l’inflazione che sta galoppando. Insomma, secondo Salvini, Draghi deve restare per forza a Palazzo Chigi perché “reinventarsi un nuovo governo daccapo penso che fermerebbe il Paese per giorni e giorni e la Lega non vuole questo”.

Insomma, anche se Giorgia Meloni sarebbe anche disposta a votare Draghi, in cambio però di improbabili elezioni anticipate, la linea del centrodestra sembra ormai segnata: il premier deve restare dove sta. Il timore è che, una volta trasferitosi al Colle, possa togliere quel poco di autonomia che è ancora rimasto ai partiti.

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