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A Bergamo i pazienti “con gli occhi sempre aperti, hanno paura di non riaprirli”

Un inferno che si trascina da un mese, senza dare ancora segnali tali da lasciar sperare nella fine dell’incubo. A Bergamo, nell’ospedale Papa Giovanni XXIII, medici e infermieri lottano con tutte le forze, giorno dopo giorno, per cercare di salvare più persone possibile, per evitare che i numeri già drammatici peggiorino ancora. Una struttura che un tempo era un via vai continuo di pazienti e che ora, invece, è spettrale. All’interno ci sono un migliaio di pazienti, la metà dei quali colpiti dal coronavirus e per questo isolati dagli altri, per evitare contagi.

Gli infermieri che si trovano ogni giorno a ricominciare da capo, in una lotta senza fine, raccontano a Repubblica che in quella struttura, occupata ormai quasi solo da persone infette, le grida delle mamme che partoriscono sono diventate ormai un segno di gioia: “Una volta facevano paura, oggi rasserenano il cuore”. Il primario Roberto Cosentini ha spiegato: “Il 17 marzo siamo arrivati a 102 malati in attesa di una macchina per respirare. Adesso siamo stabili, tra 40 e 60. Tutti gravi, però, molto giovani. Gli altri non vanno a prenderli. La data di nascita condanna a morire, spesso da soli”.Il pronto soccorso, che una volta era luogo di semplice, spesso spazientita attesa, è ora diventato un posto dove la gente muore. Un dottore ha ricordato, commosso: “Mio padre Giovanni aveva 86 anni: l’ho lasciato spegnere nel suo letto. Qui non c’era posto nemmeno per lui”. I pazienti, oggi, sanno a cosa vanno incontro. Non chiedono più quando saranno dimessi: “Solo il silenzio e la paura in fondo allo sguardo. Si affidano a noi, come se il virus li facesse ritornare bambini”.Poi c’è la testimonianza di Elisa, infermiera: “I parenti non possono restare vicini. Ci chiedono di consegnare ai nonni i disegni dei nipoti. Ci passano biglietti pieni di cuore. Vogliono che i malati sappiano quanto li amano”. All’inizio si parlava di decessi solo tra gli anziani. Ora il problema sono anche i giovani: “Resistono a casa, spesso non sento la difficoltà di respirare. Quando arrivano, i polmoni sono ridotti un disastro. È dura vedere morire anche i figli delle prime vittime”.

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