Si chiama Antonella Zarri la madre di Alberto e Alice Scagni. L’anno scorso suo figlio ha ucciso la sorella a Genova. La signora Zarri nei giorni scorsi è entrata nel carcere di Valle Armea dopo che il figlio ha subito un gravissimo pestaggio da parte di due detenuti. Scagni si trova al momento ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Borea di Sanremo e sul suo caso è stata aperta un’inchiesta per tentato omicidio. Il racconto dell’esperienza vissuta dalla signora Zarri in carcere è scioccante. Tanto che la senatrice di Sinistra Italiana, Ilaria Cucchi, ha deciso di condividerlo sulla sua pagina Facebook.
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Antonella Zarri nel carcere di Alberto Scagni
“Sono arrivata in carcere alle ore 10. – racconta Antonella Zarri – Mi hanno fatto entrare alle ore 11, per chiedere il permesso. Poi, alle 11.25, sono finalmente dentro, vengo accompagnata alla cella 6. Quella in cui è stato massacrato di botte Alberto, mio figlio. Davanti alla cella 6, c’è la cella 9. Ci sono tre persone detenute, appena rivolgo lo sguardo, si avvicinano. ‘Ci dispiace per quello che è successo, abbiamo chiamato noi, abbiamo cercato di fermarli’. Chiedo quanto tempo è durato, mi rispondono ‘tre ore’. L’agente in borghese che mi sta accompagnando mi aggredisce verbalmente”.
“’Lei non può parlare coi detenuti’, mi dice. – prosegue la madre di Alberto Scagni – Rispondo che parlare con i detenuti è mio dovere, rispondo che sono la madre del ragazzo che lì dentro è stato massacrato. Non riesce più a rispondermi. Ormai ho capito che l’agente è incaricato di tenermi d’occhio. Ma quando ha qualche momento di distrazione, continuo a sbirciare. I ragazzi nelle celle vorrebbero parlare, ma vengono rapidamente istruiti a non esporsi. Allora parlano gli occhi, tradiscono disperazione, senso di impotenza, sono gli occhi del carcere. La cella è un macello. In un angolo, è rimasta una scarpa di Alberto. Le macchie di sangue sono ovunque. Tavoli e brande, scaravoltati. È la scena di una sommossa, in 15 metri quadrati”.
Il dramma di una madre
“Un detenuto anziano, lui è nella cella 7, mi ripete nuovamente che gli dispiace: ‘Qui è così, signora, l’avevo detto’. Il vicecomandante della polizia penitenziaria lo zittisce. La voce non si ferma: ‘Ho scritto in procura, per dire che sarebbe successo, le cose qui non vanno bene’. Il vicecomandante mi allontana, per parlare da solo con il signore. Ne approfitto, torno fuori dalla cella 9, chiedo: ‘Volevano ammazzarlo?’. Un ragazzo si mette una mano sul petto, sottovoce mi dice: ‘Non lo so, non lo so davvero’. Ha l’aria ancora spaventata, quella di chi ha visto. Compare un’altra agente. Si qualifica come comandante della polizia penitenziaria. Il suo tono è allegro: ‘Io ero in ferie, l’unica settimana dell’anno pensi, sono cose proprio antipatiche queste’. Non aggiunge altro, ci accompagna dalla direttrice. La direttrice ci riceve in sala riunioni. Resta muta, insipida e melliflua, non una parola di rammarico. C’è chi lo chiede per me: ‘La signora voleva sapere cosa è successo’. ‘C’è un’indagine in corso’, risponde. Sbotto, in modo educato, che la verità si può dire sempre. Sono le mie ultime parole, esco poco dopo senza nessuna risposta”, conclude così il suo racconto terribile.
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