Vai al contenuto

Alzheimer, uno studio chiarisce le possibili cause e apre alle speranze di cura

Uno studio sul cervello chiarisce le possibili cause della demenza. Si alimentano, dunque, le speranze per una cura. Dall’analisi del cervello di persone decedute con Alzheimer, i ricercatori hanno identificato la possibile causa scatenante della malattia. Tale scoperta potrebbe portare ad approcci terapeutici innovativi contro la neurodegenerazione.
Leggi anche: Ricerca, scoperte le proteine che segnalano con anni di anticipo la formazione dei tumori

Lo stallo nelle riceche sull’Alzheimer

Oggi non si conoscono ancora pienamente le cause che portano alla formazione del morbo di Alzheimer. La principale forma di demenza al mondo. Si conoscono diversi fattori di rischio importanti, però. L’età avanzata, mutazioni genetiche, stile di vita e condizioni fisiche. Anche essere donna comporta un rischio superiore, circa doppio rispetto agli uomini.

Ancora non è stata fatta piena luce sui processi che determinano la neurodegenerazione, la morte dei neuroni che sfocia nel declino cognitivo, caratterizzato da perdita di memoria, difficoltà a orientarsi, problemi nel linguaggio e altre condizioni.

Un nuovo, pionieristico studio, potrebbe aver scoperto uno dei meccanismi più importanti legati allo sviluppo della malattia e, con esso, la speranza di nuovi approcci terapeutici. L’Alzheimer risulta oggi incurabile.

Cellule con segni di invecchiamento

Gli autori della nuova ricerca hanno osservato che nel cervello delle persone decedute con Alzheimer vi è una percentuale superiore di cellule con segni di invecchiamento, inoltre è stata rilevata un‘interazione ridotta tra il DNA fortemente ripiegato (cromatina) e l’RNA.

Insomma, le cellule cerebrali, come i neuroni e gli oligodendrociti, possono invecchiare in modo uniforme, con alcune che lo fanno più rapidamente e altre meno; l’Alzheimer potrebbe essere innescato proprio da questo invecchiamento rapido, che a sua volta può compromettere la capacità di interazione tra acido desossiribonucleico (DNA) e l’acido ribonucleico (RNA), col secondo responsabile della trascrizione delle informazioni contenute nel primo.

A determinare che nel cervello delle persone con Alzheimer è presente una percentuale superiore di cellule cerebrali più vecchie e che il loro DNA interagisce meno con l’RNA è stato un team di ricerca internazionale. Il team è guidato da scienziati del Programma in Bioinformatica e Biologia dei sistemi dell’Università della California San Diego. Questi hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Bioingegneria e Shu Chien-Gene Lay e dell’Istituto di Ingegneria in Medicina.

Il metodo MUSIC

I ricercatori, coordinati dal professor Sheng Zhong, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato a fondo il cervello di 14 donatori deceduti. Concentrandosi in particolar modo sulla corteccia frontale. L’età minima era di 59 anni e alcuni erano morti con demenza, altri no. Per condurre le analisi, i ricercatori hanno impiegato un metodo pionieristico. Si chiama MUSIC, acronimo di mappatura dell’interazione dell’acido multinucleico nelle singole cellule. È talmente potente da avere una risoluzione a singola cellula e poter persino osservare le interazioni cromatiniche tra il DNA e l’RNA.

Con il passare del tempo queste interazioni, legate a fondamentali processi biologici, cambiano in modo significativo. Grazie a MUSIC gli autori del nuovo studio hanno scoperto che nel cervello dei pazienti con Alzheimer questi “scambi” sono particolarmente ridotti. Inoltre, come indicato, è stato osservato che nelle persone decedute con Alzheimer c’erano molte più cellule con segni di invecchiamento. In un ulteriore esperimento su modelli murini è stato rilevato che nelle femmine c’è un rapporto superiore di oligodendrociti (cellule cerebrali di supporto) e neuroni invecchiati rispetto ai maschi; questo potrebbe spiegare perché le donne hanno un rischio superiore di demenza degli uomini.

“L’obiettivo è identificare i geni disregolati”

“Con questa tecnologia trasformativa a cellula singola, abbiamo scoperto che alcune cellule cerebrali sono ‘più vecchie’ di altre. Se potessimo identificare i geni disregolati in queste cellule invecchiate e comprendere le loro funzioni nella struttura locale della cromatina, potremmo anche identificare nuovi potenziali bersagli terapeutici”, ha chiosato il professor Zhong. I dettagli della ricerca “Single-cell multiplex chromatin and RNA interactions in ageing human brain” sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Hai scelto di non accettare i cookie

Tuttavia, la pubblicità mirata è un modo per sostenere il lavoro della nostra redazione, che si impegna a fornirvi ogni giorno informazioni di qualità. Accettando i cookie, sarai in grado di accedere ai contenuti e alle funzioni gratuite offerte dal nostro sito.

oppure