di Filippo Rossi
Baglioni come Beppe Grillo, a quasi 35 anni di distanza. Se nel leggere le recenti vicissitudini del cantautore siete stati assaliti da un’improvvisa sensazione di déjà vu, sappiate che non vi sbagliate. Riepilogando in breve, per chi si fosse perso qualche puntata: il direttore artistico di Sanremo, nel presentare l’edizione annuale del Festival, ha risposto alle domande di alcuni giornalisti che gli chiedevano un parere sul pugno duro adottato da Salvini sul caso Sea Watch. “Fermare 50 migranti? Una farsa”.
Secondo Baglioni, “il nostro paese è terribilmente incattivito, rancoroso, nei confronti di chi non è piacevole, di chi non è amico. Le misure messe in atto da questo e dai precedenti governi non sono stata all’altezza della situazione”. Una critica rivolta non solo all’attuale esecutivo, ma anche ai suoi predecessori. Unita alla richiesta di un’inversione di rotta. Parole che non sono piaciute affatto a Matteo Salvini, pronto a replicare invitando il direttore del Festival a farsi i fatti suoi e lasciar lavorare “chi ne ha diritto”.
Finita qui? Macché. Al governo gialloverde non è andata proprio giù l’uscita del cantate, tanto da far scattare “l’epurazione” dalla Rai. La Stampa ha anticipato, citando fonti vicine alla direttrice della rete ammiraglia Teresa De Santis, che un Baglioni-Ter non si farà: anche nell’ipotesi di un clamoroso successo del Festival, già lo scorso anno capace di superare ogni più rosea aspettativa, le strade di Sanremo e del direttore artistico si separeranno una volta proclamato il vincitore dell’edizione 2019.
Una scena che ha ricordato un passato lontano ma non troppo. 1986, Beppe Grillo prende parte a una puntata dello show Fantastico 7 in onda sulla Rai e si lancia in una battuta che fa drizzare le antenne di Bettino Craxi: “Ma se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?”. Apriti cielo. Il comico genovese viene allontanato dal servizio pubblico, così come paga dazio (lo avrebbe rivelato soltanto anni dopo l’episodio) Pippo Baudo, ritenuto a sua volta responsabile dell’accaduto.
Un esilio che fece scalpore e suscitò lo sdegno degli spettatori: “Possibile che in un Paese come l’Italia non si possa ironizzare sul potere senza rischiare la propria carriera?”. Un incidente trasformatosi negli anni in medaglia al valore per Grillo, il simbolo di quanto scomodo fosse il suo pensiero per quella classe politica vecchia, incapace e corrotta che il Movimento Cinque Stelle oggi dice di voler superare.
33 anni dopo, invece, la storia si ripete. Con in Parlamento, insieme all’inferocito Salvini, proprio quei grillini che promettevano rottura, cambiamento (rottamazione no, quella era esclusiva di Renzi). E ricaduti negli stessi errori di chi ha governato prima di loro. E allora passino le pur odiose sparate contro la stampa, le non troppo velate minacce dei tagli all’editoria. Ma accettare che un personaggio pubblico non possa esprimere un parere contrario alla linea del governo è, francamente, chiedere troppo.
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