Benedetta Cipriani, 45 anni, fino a qualche tempo fa era infermiera di pediatria da ben 15 anni. Oltre al lavoro, la donna è anche una mamma a tutto tondo di ben 5 figli: il più piccolo ha 6 anni, la più grande 18. Eppure, quando le hanno chiesto di tornare in prima linea nei reparti più a rischio Covid-19, non ci ha pensato due volte e ha accettato. “Un pomeriggio ero in servizio e il mio caposala mi ha detto che mi cercavano in direzione – ha raccontato Benedetta in un’intervista con l’Adige.it -. Ho pensato fosse successo qualcosa e invece hanno chiesto, a me e altri colleghi di altri reparti, la disponibilità a tornare a lavorare in Rianimazione dove avevo già lavorato 20 anni fa. Un trasferimento momentaneo e legato a questo periodo di emergenza”. Benedetta è una di quelle persone che quando le incontri ti sorridono anche con gli occhi, oltre che con il cuore. Per questo, nonostante la mascherina che indossa, come molti altri suoi colleghi riesce ad entrare in sintonia con i pazienti, anche se bardata come un’astronauta. “La Rianimazione mi è sempre piaciuta e di pancia ho detto di sì – ha proseguito l’infermiera -. Le paure sono venute dopo: riprendere in mano le cose, gestire i bambini. Però non me la sono sentita di dire no, non perché io mi senta indispensabile, ma perché se ci sono dei colleghi che hanno bisogno, se posso aiutare, mi metto in gioco”.
“Un paio di settimane ho iniziato facendo un paio di giorni in Rianimazione “normale” e poi mi hanno messo in rianimazione Covid. Devo ringraziare i vari caposala, chi mi ha lasciato andare e quelli che mi hanno accolto. E poi i colleghi che mi hanno accettato con grande disponibilità e pazienza anche se la situazione e il lavoro sono un po’ nuovi per tutti e ci aiutiamo reciprocamente”. Un lavoro sicuramente diverso dal precedente quello di Benedetta, dove la sofferenza e la solitudine dei malati sono una perenne costante: “Quello che mi fa più specie è vedere i pazienti soli e rincuora che noi, al di là delle tecniche, possiamo stare loro vicino almeno un po’ a quelli svegli. Una carezza, una parola fanno la differenza – ha affermato Benedetta-. Sono pazienti fragili e complessi che non possono vedere nessuno per giorni, per settimane. Là dentro noi siamo tutto per loro: i loro infermieri, i loro amici, i loro parenti anche perché non hanno modo di comunicare con l’esterno”.“L’altro giorno, ad esempio, c’era un signore anziano che era sveglio ma confuso – ha raccontato Benedetta-. Non poteva parlare perché aveva il respiratore attaccato e io stavo sistemando delle cose vicino a lui. Ad un certo punto ha iniziato a parlarmi, ma io non riuscivo a capivo. Poi ho visto che stava leggendo il mio nome che avevo scritto sul cerotto attaccato al camice. “Sì, mi chiamo Benedetta”, gli ho detto. Poi mi ha fatto capire che era sposato, aveva due figli grandi. Gli ho detto di stare tranquillo, che avremmo parlato noi con la moglie e che le avremmo detto dei suoi miglioramenti. Allora mi ha chiesto se ero sposata e avevo dei figli. Gli ho detto di sì, che ne avevo cinque. Con tutta la forza che aveva mi ha preso il braccio, ha tirato la mia mano verso di sé e mi ha baciato sopra i quattro guanti che indossavo. Mi sono commossa, mi veniva da piangere, ma mi sono trattenuta”.Il ricovero in solitudine
“Per le famiglie è una tragedia non poter essere vicine ai loro cari, non poterli vedere, ma questa cosa non ci lascia indifferenti, siamo persone umane, di cuore e cerchiamo noi di supplire in ogni modo ai bisogni di attenzione che hanno le persone ricoverate. Una carezza, una parola, un sorriso, ripeto, fanno la differenza”.
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