In una intervista a Repubblica, Giuliano Urbani ha voluto dire la sua sulla mancata deposizione di Silvio Berlusconi nel processo a Dell’Utri, in cui ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. “L’immagine di Berlusconi che rinuncia alle telecamere e alla difesa di un amico rappresenta plasticamente la fine di un’epoca. Silvio voleva che Forza Italia nascesse e morisse con lui, ed è quello che sta accadendo”. Si dice sorpreso per la scelta dell’ex premier di non rispondere ai giudici. “Immagino siano stati gli avvocati a spingerlo verso questa decisione”.
Urbani poi commenta amaramente: “Ma certo una cosa mi colpisce. Mai una volta, nella mia vita, ho sentito Silvio usare parole meno che lusinghiere nei confronti di Dell’Utri. E, visto che conosco bene anche Marcello posso immaginare il suo dispiacere. Dell’Utri – spiega Urbani – soffre ancora di più perché oltre a essere una persona intelligente e colta ha un concetto di amicizia solido, figlio anche delle sue radici meridionali. Sa di essere stato vittima sacrificale. Non avrebbe incontrato le difficoltà giudiziarie sofferte se non fosse stato vicino al vero bersaglio, Berlusconi”.
La conclusione di Urbani: “E ora si vuole abbandonarlo: capisce le ragioni ma non può che essere addolorato. Anche perché nei processi corre qualche rischio in più”. Berlusconi infatti non ha voluto essere ripreso nell’aula bunker dove si celebrò il maxi processo alla mafia e divenuta il simbolo del contrasto giudiziario a Cosa nostra, negando il consenso prima ancora di presentarsi davanti ai giudici. E una volta sedutosi davanti alla corte d’Assise, a telecamere abbassate per non inquadrare il volto, Berlusconi ha sbrigato la pratica con poche parole: “Su indicazione dei miei avvocati, intendo avvalermi della facoltà di non rispondere”.
Fine della deposizione. “Grazie a tutti”, aggiunge prima di alzarsi e andarsene accompagnato da una nutrita schiera di carabinieri. Una scelta clamorosa, perché la richiesta della sua testimonianza arrivava da Marcello Dell’Utri, l’amico di una vita professionale e politica, condannato a 12 anni di carcere nel processo di primo grado sulla trattativa Stato-mafia per essere stato il tramite delle minacce di Cosa nostra al governo guidato a Berlusconi. Le esigenze personali dell’ex premier – indagato da due anni, e per la terza volta, come ipotetico mandante esterno delle stragi di mafia del 1993-94 dalla Procura di Firenze – hanno evidentemente prevalso sulla volontà di portare sostegno all’amico che gli aveva chiesto aiuto.
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