Oggi produciamo e immettiamo nella rete incalcolabili terabyte di dati che parlano di noi e raccontano chi siamo: pensate a tutto quello che pubblichiamo sui social network, ai dati che immettiamo sui sistemi di e-commerce o di recruitment, alle email che inviamo o ai dati personali che lasciamo quando ci iscriviamo ad una fidelity card: un patrimonio di inestimabile valore per aziende e istituzioni per capire chi siamo e cosa vogliamo. I big data sono il petrolio del XXI secolo, la nuova merce di scambio tra governi: pensate ad esempio al recente clima di guerra fredda da USA e Russia in occasione delle imminenti elezioni presidenziali americane.
Cosa succede a livello di privacy?
Il mondo di Internet ha posto mai come prima d’ora il problema della tutela della privacy – qui un articolo che parla del diritto all’oblio nel mondo digitale – e del trasferimento dei nostri dati a terze parti a scopi commerciali, e sebbene siamo chiamati a dare il consenso sulle modalità del loro utilizzo, in realtà pochi di noi sono realmente consapevoli dell’utilizzo che ne sarà fatto. Con l’Internet of Things il problema poi si pone in maniera pesante: se gli elettrodomestici intelligenti si accendono da soli in base alle nostre indicazioni, e se nelle smart city il consumo di energia è regolato in base alle nostre abitudini, l’azienda produttrice della nostra lavatrice o del nostro forno saprà benissimo a che ora laviamo i panni o a che ora ceniamo. I servizi attorno a noi diventeranno sempre più efficienti, il mercato sarà sempre più tarato sui nostri bisogni e le aziende costruiranno offerte sempre più efficaci.
Quali questioni morali ne derivano?
La questione è ovviamente anche normativa: quando l’IoT sarà davvero diffuso i governi dovranno preoccuparsi di regolamentare la proprietà dei dati personali: in questo senso il progetto HAT del Regno Unito apre la strada a qualcosa che prima o poi dovrà avvenire anche nel nostro paese.
Foto di [HAT – Hub of all things]