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Bitcoin: l’effetto della criptovaluta produce inquinamento

Negli ultimi mesi il continuo rimbalzo dei prezzi di bitcoin ha innescato dubbi non solo sulla sostenibilità finanziaria della criptovaluta, ma anche sull’impatto ambientale della blockchain. Il bitcoin, consuma più elettricità della maggior parte delle nazioni mondiali. Il “mining“, cioè il sistema utilizzato per emettere bitcoin attraverso la potenza di calcolo di moltissimi computer sparsi per il globo, richiede infatti 30 terawattora all’anno, più dell’Irlanda.

In tanti si chiedono se i Bitcoin, a lungo andare, si riveleranno una bolla o no. Nessuno si chiede quale impatto abbia, sull’ambiente, produrli. È un punto importante ma sempre dimenticato: i bitcoin, come se fossero un minerale, vanno “estratti” dalla rete. Questo significa che, per sbloccarli, va individuato un codice specifico attraverso una serie di operazioni informatiche molto complessa. Per eseguirle, ormai, un computer da solo non basta: ne servono tantissimi, coordinati tra loro che lavorino giorno e notte. Come è ovvio, per funzionare hanno bisogno di tanta elettricità.

Secondo gli esperti dell’università di Cambridge il consumo energetico della rete continuerà a salire nei prossimi mesi destando preoccupazioni sul fronte della sostenibilità ambientale. La cifra, calcolata dal Bitcoin Energy Consumption Index di Digiconomist, fa sì che l’ecosistema bitcoin, se fosse uno Stato, sarebbe sessantunesimo al mondo per consumo elettrico. Una gestione digitalizzata della moneta su scala globale quanto costa in termini di energia? 

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Quanto inquina tutto questo?

Una delle conseguenze più interessanti e non intenzionali dell’aumento di prezzo è stata l’impennata del consumo globale di energia. Migliaia di nuovi bitcoin vengono creati ogni giorno attraverso un processo noto come mining. Ciascun token (l’unità di una criptovaluta) richiede la risoluzione di un complesso puzzle matematico attraverso processi crittografici eseguiti da potenti computer. Più bitcoin si creano, più aumenta il tasso di difficoltà dei calcoli, più cresce il fabbisogno di elettricità.

Nonostante sia una moneta virtuale, la sua produzione è molto costosa: estrarre bitcoin richiede sempre più energia elettrica con un conseguente impatto sull’ambiente. Emettere criptovaluta richiede un’energia superiore a quella consumata in un anno da Paesi europei come Austria, Croazia e Ungheria, ma anche a quella usata da ogni Stato dell’Africa a eccezione di Algeria, Egitto e Sudafrica.

Secondo un rapporto pubblicato qualche settimana fa da Morgan Stanley la potenza computazionale necessaria per creare ciascun token digitale consumerebbe almeno la stessa quantità di elettricità che la famiglia media americana consuma in due anni. Quest’anno la domanda di energia legata al mining sarebbe destinata a triplicare. Gli analisti prevedono che l’estrazione di bitcoin arriverà a consumare più di 125 terawattora di elettricità entro i prossimi dodici mesi, pari allo 0,6% del consumo mondiale, un livello che i veicoli elettrici non raggiungeranno fino al 2025. Lo scorso anno la blockchain di bitcoin ha consumato 36 terawatt di energia, tanto quanto uno stato come il Qatar.

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Dove si trovano i grandi centri di minig

I sei più grandi centri aggregati di mining (mining pool) al mondo, da Antpool a Btcc, sono tutti in Cina dove i costi energetici sono più economici rispetto a nazioni come il Regno Unito o gli Stati Uniti. L’entroterra del paese si è rivelato un luogo ideale per i mega data center a causa dei prezzi a buon mercato di elettricità e terreni. Gran parte dell’energia nella provincia cinese proviene però da centrali elettriche inefficienti a carbone, costruite in previsione di grandi progetti edilizi mai realizzati. Secondo il sito Bitcoinmagazin.com circa il 70% dei principali pool minerari bitcoin si trovano in Cina o sono di proprietà di società cinesi con un impatto colossale in termini di emissioni nocive dovuto alla bassa qualità degli impianti di fornitura elettrica. Uno studio del settore pubblicato pochi mesi fa da Garrick Hileman e Michel Rauchs dell’università di Cambridge ha stimato che la Cina produrrebbe circa un quarto di tutta la potenza computazionale necessaria per generare criptovalute con conseguenze disastrose sull’ecosistema.

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Cosa succederà entro i prossimi anni

Secondo le stime, entro i prossimi diciotto mesi, il processo informatico che genera ogni moneta richiederà più elettricità di quella che gli Stati Uniti consumano in un anno. La moneta virtuale è decentralizzata e non esiste un elenco di computer che compongono la rete o una stima scientifica di quanta energia venga utilizzata. Il dato tangibile è che le operazioni di data mining stanno assorbendo quantità esorbitanti di elettricità. Il fatto che la maggior parte dei bitcoin sia estratto in Cina sta alimentando accese discussioni sull’impatto ambientale del mining.

Il crescente interesse da parte dell’alta finanza intorno alle criptovalute, porterebbe a una maggiore domanda di moneta digitale spingendo l’uso di energia ancora più in alto, a livelli insostenibili entro i prossimi anni. I ricercatori dell’università del Queensland hanno lanciato l’allarme affermando che i governi stanno concentrando i loro sforzi su come regolamentare le criptovalute sottovalutando il consumo di energia richiesto dalla tecnologia e l’impatto che l’utilizzo di elettricità della rete potrebbe avere sul riscaldamento globale.

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