Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova, è il padre di quello che è stato definito trionfalmente il “modello Veneto”. Oggi Crisanti passa all’attacco e denuncia che il suo piano è stato totalmente ignorato, e che infatti i risultati si vedono. Optando per uno screening a tappeto, lui ha “salvato” il Veneto in piena Fase1. In questi giorni in Italia si viaggia a un ritmo di oltre 100mila tamponi, ma per Crisanti sono “acqua calda. Io ne suggerivo 3-400 mila al giorno”. Era infatti fine agosto quando il medico presentò al governo un piano per quadruplicali.
Che fine ha fatto quello studio? Spiega Crisanti a Repubblica in un’intervista a Viola Giannoli: “L’ho consegnato al ministro D’Incà e al viceministro Sileri che lo hanno sottoposto al Cts. Poi non ne ho saputo più nulla… Avevo semplicemente previsto che la ripresa delle scuole e delle attività produttive avrebbe generato un notevole aumento delle richieste di tamponi. Suggerivo quindi la necessità di un investimento logistico importante che avremmo potuto realizzare in 2-3 mesi, la creazione di aree mobili di supporto sul territorio e tamponi low cost da 2 euro come quelli usati a Padova. Lo dico contro me stesso: forse ad agosto eravamo già in ritardo e ora ne paghiamo le conseguenze”.
Aggiunge Crisanti: “Abbiamo perso 4 mesi preziosi. L’aver pensato che era tutto finito perché avevamo 100 casi al giorno è stata un’illusione. Nel frattempo non s’è fatto nulla. Abbiamo speso miliardi per il bonus bici e i banchi, invece di invertirli per creare un sistema sanitario di sorveglianza che ci avrebbe messo in sicurezza. Cosa si può fare ora? Dipende dall’obiettivo. Possiamo usare i tamponi per tre attività: screening di comunità, prevenzione o sorveglianza attiva”.
“Nel primo caso – analizza Crisanti – si tratta di impedire a chi è potenzialmente infetto di entrare in comunità e dunque serve un test affidabile e sensibile come il tampone Pcr. Nel caso dello screening l’obiettivo è capire se c’è trasmissione nella comunità e, in prima battuta, va bene anche il tampone rapido. Nella sorveglianza attiva di un positivo, l’obiettivo è isolare dalla comunità le persone che può aver infettato o che l’hanno contagiato: amici, aprenti, colleghi”.
Infine, Crisanti avverte: “C’è una disorganizzazione totale. Il piano di sorveglianza non può essere lasciato a iniziative locali, perché se sbagliano l’impatto è devastante per tutto il Paese. I test devono essere certificati e coordinati dallo Stato. Quel che preoccupa è il rapido aumento dei casi. Via via il governo introdurrà inasprimenti che impatteranno sulla qualità della vita. Ma queste misure devono essere accompagnate da un investimento in sanità: non si può scaricare tutto sulle spalle degli italiani”.
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