Lo diciamo sempre, gli diamo peso mai. Eppure il fatto è grave, molto grave e avrà delle conseguenze drammatiche per l’Italia. Parliamo dei miseri investimenti in cultura. Ogni anno a Parigi 3,3 miliardi di dollari di fondi pubblici sono dedicati alla “cultura”. Anche a Mosca e Londra il peso degli investimenti in “cultura” non sono troppo lontani, ricevendo rispettivamente 2,4 e 1,6 miliardi di dollari. Un filo d’oro che lega la cultura a tutti gli aspetti della pianificazione urbana e della politica sociale e territoriale in città in ogni angolo del globo. E in Italia? A spiegare tutto ci pensa Massimiliano Zane con un approfonditissimo articolo pubblicato su Artribune. A restituire il polso della situazione globale in termini di interventi e investimenti nazionali in cultura ci prova il World Cities Culture Finance Report: il primo studio comparativo globale di orientamento specificatamente economico dedicato alla cultura.
In parole povere, il Culture Finance esamina quanto viene speso in “cultura” nelle e dalle principali città del mondo. Partendo “da chi spende” fino a “dove finisce il denaro investito”, offrendo un quadro chiaro ed esaustivo di un paesaggio finanziario sempre più complesso e non completamente chiaro nelle sue innumerevoli sfaccettature. “Purtroppo il Belpaese non risulta pervenuto – scrive Zane. Dal 2014 al 2017, nessuna città italiana è stata ritenuta degna di attenzione dal forum, in quanto le attività nel settore culturale del Belpaese sono sempre state interpretate lontane dal definirsi strutturali e paragonabili agli interventi messi in atto negli altri Paesi. Ciò sostanzialmente perché lasciate ancora a singole sensibilità sparse lungo lo stivale”.
“Secondo l’indagine Rsm-Makno “Investire in cultura” realizzata per Impresa Cultura Italia ‒ Confcommercio, oltre il 70% degli imprenditori valuta positivamente il sostegno a progetti ed eventi culturali: il 51% lo considera strategico nel lungo periodo e dunque lo integra nelle proprie strategie di marketing, il 23% è al lavoro per raggiungere il medesimo obiettivo. Il 36% delle imprese, inoltre, ha ripreso gli investimenti in cultura negli ultimi tre anni, dopo il forte rallentamento che aveva caratterizzato la prima metà del decennio a causa della crisi, mentre solo il 9% li ha interrotti. Il tutto con un impatto economico complessivo nel 2018 pari a 270 milioni di euro e un impatto sociale quantificato in 2.484 occupati in più”.
“E questo nonostante quanto certificato da Confindustria, che nello stesso periodo, ma al di fuori del caso specifico dell’investimento in cultura, certifica un ‘crollo degli investimenti privati nel 2019 su cui pesano sfiducia e incertezza che, insieme a una domanda interna piatta e a consumi deboli, pregiudicano la crescita del Paese’. Per quel che riguarda il rapporto tra la spesa pubblica nazionale in Cultura e il Pil, poi, pare che l’intera questione sia un affare particolarmente complicato, roba da fini analisti. Allora, proviamo a semplificare al massimo (e l’Eurostat ci dà una mano): in Europa, Grecia e Regno Unito (0,7%), Irlanda (0,6%) e Italia (nel 2016 0,7%, oggi tra 0,4% e 0,3%) hanno ‘speso il minimo’ in cultura”.
“Francia (1,4%) Ungheria (2,1%) ed Estonia (2,0%), invece, hanno speso più della media europea. Aggiungiamoci anche che l’Italia è all’ultimo posto in EU per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione e al mondo dell’educazione in generale (dal 3,5 al 3,4% nel 2019 a fronte del 10,2% medio EU) e questo fa sì che il nostro Paese sia quello con il tasso più alto di abbandono scolastico in Europa, il 14,4% su una media del 10,7% (la Lettonia è al 10%) e per numero di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: nel 2017 erano il 25,7%, a fronte di una media europea del 14,3%”.
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