Il debito pubblico come nella second guerra mondiale. Abbiamo raggiunto i 2.316 miliardi di euro, il 132,1% del Pil. E quest’anno potrebbe salire al 132,8% del Pil. Questo è il valore tendenziale che si legge nel Def e mostra gli scenari cupi per il nostro Paese, a causa di una crescita nominale bassa e malgrado le ipotesi di proventi che dovrebbero arrivare dalle privatizzazioni. Per fare un confronto storico, ha superato del 22 per cento il picco raggiunto durante il secondo conflitto mondiale. E gli mancano solo 28 punti percentuali per eguagliare il punto massimo registrato dallo stato nel 1920.
È una mole enorme, che si avverte ancor più gravosa considerando il tasso di crescita debole dell’econonia italiana. Mentre in Europa ci sono paesi che sono riusciti a tagliare parte dei rispettivi stock o a stimolare il Pil, disinnescando gli effetti esplosivi dell’indebitamento pubblico: dal Belgio all’Irlanda, fino a Danimarca e Olanda.
L’aumento del rapporto debito/Pil è stato provocato in parte dal rallentamento economico nazionale. Come si legge nel testo, per il 2019 l’indebitamento netto tendenziale è previsto pari al 2,4 per cento del Pil, mentre nell’aggiornamento di dicembre era proiettato al 2,0 per cento. Una revisione al rialzo dovuta alla minore crescita nominale prevista. Con questo governo, dunque, stiamo finendo dentro il baratro. Il nostro debito è un macigno pesante e alcuni fattori ne mettono a rischio la sostenibilità nel lungo tempo.
Serve un cambio di passo per tenere a freno questa dinamica che influenza la percezione del rischio paese e ha un impatto negativo sul sistema produttivo nazionale. Il rapporto tra debito pubblico e Pil è condizionato da diversi fattori. La curva tende sempre più verso l’alto per l’aumento della spesa pubblica, diversi disavanzi primari e il rallentamento della crescita.
Gli altri fattori da considerare sono la crescita dei tassi di interesse e l’aumento del rischio paese percepito, che fanno innalzare i costi di gestione del debito (chiedere a Di Maio, Conte e Salvini con le loro dichiarazioni e le loro azioni politiche e economiche). Nel 2018 le tensioni gialloverdi hanno condizionato molto lo spread, facendo lievitare il differenziale di rendimento tra i titoli italiani e tedeschi. Tutto questo ha comportato una spesa aggiuntiva per interessi pari a 1,5 miliardi di euro nel 2018, 5 nel 2019 e 9 nel 2020.
La linea d’azione da seguire è quella che coniuga crescita economica e razionalizzazione dei conti pubblici. Quindi da un lato rilanciare gli investimenti; e dall’altro favorire avanzi primari, tagliando quelle parti della spesa corrente di cui si può fare a meno (quindi si esclude quella sanitaria e previdenziale). L’opzione dell’aumento della pressione fiscale è sconsigliata per l’effetto recessivo: “I vantaggi derivanti dalla maggior avanzo primario sarebbero vanificati dalla minor crescita”.
Ti potrebbe interessare anche: Reddito di cittadinanza flop: uno su due non ha fatto richiesta. Pochissimi i giovani