Aprite il portatile e cercate il regalo perfetto su un sito di e-commerce. Magari vi limitate a navigare, o create un account per fare un acquisto, o ancora spuntate una serie di caselle fornendo informazioni su ciò che vi piace e non vi piace. Ogni giorno ci fidiamo di marchi famosi delegandogli la gestione dei dati personali, ma quello di cui il consumatore probabilmente non si rende conto è che i commercianti condividono le informazioni sui clienti con una complessa rete di inserzionisti pubblicitari, società di marketing e altri «partner selezionati».
Poche persone hanno un’idea, anche vaga, di chi siano queste società o cosa facciano con i dati che raccolgono, ma questo oscuro mondo di condivisione di informazioni sarà costretto a uscire in gran parte alla luce del sole quando il regolamento generale dell’Unione Europea sulla protezione dei dati entrerà in vigore, a maggio di quest’anno. Le imprese dovranno fornire ai loro clienti molte più informazioni su quali dati condividono con quali aziende, e sull’uso che viene fatto di questi dati.
Varie società che ricevono i dati dei clienti di aziende di commercio al dettaglio e altre imprese sono coinvolte in vari modi nella raccolta e organizzazione delle informazioni personali per costruire profili online (quando e dove navigano le persone, che cosa guardano e se acquistano qualcosa). Questi profili, ulteriormente elaborati con l’aggiunta di altre informazioni raccolte da social media, app per cellulari, motori di ricerca e altri comportamenti telematici, possono essere vendute a concessionarie pubblicitarie e poi usate per promuovere prodotti mirati agli utenti del web.
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Nel complesso, il nuovo regolamento europeo costringerà le aziende a rendere conto del loro operato molto più di prima, se elaborano o archiviano dati personali di cittadini dell’Unione Europea. Dovranno rendere più chiare le richieste di consenso per la condivisione dei dati: per esempio, niente più caselle da spuntare alla fine di lunghi capoversi infarciti di gergo legale per negare il permesso al trasferimento di informazioni.
Tutto questo sta creando grossi grattacapi per le imprese, costrette a eseguire esercizi di mappatura per stabilire con precisione dove finiscono i dati dei loro clienti, che in certi casi passano attraverso molteplici entità. Come se non bastasse, gran parte della condivisione di dati è gestita da algoritmi telematici e tecnologie automatizzate, e questo rende più difficile ricostruire a chi finiscono le informazioni.
Oltre a rispettare le norme stabilite dal regolamento, le imprese temono una rivolta degli utenti, quando avranno un’idea più chiara di come funziona il sistema di data sharing.
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Una ricerca condotta lo scorso anno dalla PageFair, una società di consulenza digitale che aiuta le imprese a far fronte ai programmi per bloccare le pubblicità, dimostra quanto sia difficile convincere gli utenti online ad affidare le loro informazioni ad aziende che non conoscono. In un’indagine fra 305 professionisti del commercio al dettaglio e di altri settori affini – persone che in teoria non dovrebbero essere turbate dall’elaborazione dei dati – i quattro quinti hanno risposto che negherebbero il consenso se un sito chiedesse loro il permesso di condividere le proprie abitudini di navigazione con un altro marchio e con «partner di analitica».
Quasi due terzi degli intervistati hanno detto di non credere che l’utente ordinario cliccherebbe «okay» e darebbe il suo consenso a condividere i dati con altre aziende.
Il risultato è che le imprese che fanno affidamento sulla fiducia dei consumatori si arrovellano per trovare un modo di presentare agli utenti le informazioni sulla destinazione dei loro dati senza spaventarli.«Ma tra cinque mesi le imprese dovranno essere pronte a dire: questo è quello che succede ai vostri dati, questi sono i soggetti che hanno accesso ai vostri dati e questi sono gli utilizzi che ne fanno».
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