A Di Maio però un merito va dato: con l’aver “messo la faccia” sul salvataggio di Salvini ha definitivamente firmato la condanna a morte del Movimento Cinque Stelle e del grillismo. Non era facile, ma lui c’è riuscito. Giggino ha preso un movimento ipergiustizialista, d’una coerenza ferrea nel suo manicheismo, aggrappato alla presunta diversità originaria rispetto agli inquilini del Palazzo e con i sondaggi alle stelle. Quel Movimento nato da un Vaffanculo e che suddivideva tutto in “Noi e loro”, “il popolo e la casta”, “i giustizieri e gli impuniti”.
Non avevano un programma politico, dicevano Vaffa, per dichiarata ammissione dei padri fondatori Grillo&Casaleggio, e funzionava proprio per quello. Un’accozzaglia di improvvisati che si urlavano ‘uno vale uno!’ per convincersi a vicenda, visto che tutti insieme non valevano nulla.
Erano quelli che volevano ‘aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno’, secondo il motto di Grillo. E poi? Poi è arrivato Luigi Di Maio da Pomigliano d’Arco. Uniche esperienze lavorative riscontrabili il webmaster ‘per breve periodo’ e lo steward allo stadio San Paolo. Alle mitologiche ‘parlamentarie’ del 2012 ottiene 189 voti online. In un Paese normale sarebbero i voti buoni per un consiglio comunale di medie dimensioni e invece lui nel magico mondo della Casaleggio&Associati conquista un seggio blindato da onorevole.
Poi diventa il “capo politico” (perché il capo vero è sempre Casaleggio, cioè il proprietario del Movimento) dei grillini di nuova generazione: governativi, istituzionali, responsabili. Praticamente quelli che hanno mandato un bel Vaffa al Vaffa, e hanno capito che il Movimento Cinque Stelle poteva essere la nuova Democrazia Cristiana. Un colpo a destra e uno a sinistra, camaleontici, molto assistenzialisti come si conviene all’Italia.
Ma Di Maio non è De Gasperi, e nemmeno Andreotti. I pentastellati non sono i democristiani e l’addio alle barricate non è compensato dall’arte di governo. Il Movimento ‘dimaizzato’ ha abbattuto i totem identitari: No all’Ilva, No al Tap, No alle trivelle, No al solo doppio mandato, No alla rendicontazione, No allo streaming (etc, etc, etc) senza rimpiazzarli con dei Sì convincenti. I pochi provvedimenti a loro riconducibili scadono nella barzelletta: dal ‘decreto dignità’ che ha gravato le imprese di ulteriore carico burocratico-fiscale spingendole a licenziare, al reddito di cittadinanza con navigator, conti matematici che non tornano e boom di finti divorzi per godere della mancetta di Stato.
Intanto, il socio di governo Salvini vola, tiene in piedi la baracca e quindi le poltrone di Giggino e degli altri, obbligandoli ad inscenare il proprio suicidio, con il niet al processo per il caso Diciotti e la caduta dell’ultimo tabù: la protezione della ‘Casta’ dall’interventismo della magistratura ideologizzata. È il requiem finale per il Movimento: hanno abdicato alla purezza manettara per la politica, senza avere la minima idea di cosa essa fosse.
Ti potrebbe interessare anche: Il consiglio di Feltri all’amico Silvio: “Fai così e riconquisterai l’Italia”