Uno dei fallimenti più clamorosi del recente passato quello della Lehman Brothers, società attiva nei servizi finanziari a livello globale che nel settembre 2008 mise in crisi i vertici delle più importanti banche commerciali e di investimento degli Stati Uniti, riuniti negli uffici della Federal Reserve a Wall Street per valutarne la situazione e trovare una soluzione per salvarla dal crac. Solo due giorni prima, Lehman aveva comunicato al mercato che il suo capitale alla fine di agosto era di 28 miliardi di dollari. Nei nove mesi precedenti la banca aveva fatto perdite per 6 miliardi, ma aveva anche raccolto attraverso aumenti di capitale ben 10 miliardi di dollari. Il che significava che aveva più patrimonio dell’anno precedente. Come ricorda oggi Repubblica, però, nessuno si sentiva tranquillo di fronte a quei numeri. Su tutti la Federal Reserve, la banca centrale americana, che non volle fare affidamento sulle cifre dei libri contabili.
Intorno a Lehman era infatti in atto una fuga che l’avrebbe lasciata senza liquidità e finanziamenti: sarebbe stata costretta a vendere i suoi asset per far fronte ai debiti a prezzi di saldo, e quel capitale, per le svalutazioni da iscrivere a bilancio, sarebbe sparito nel giro di una notte. Un processo iniziato qualche mese prima, il 12 giugno 2008, quando Lehman aveva pubblicato i risultati del secondo trimestre, chiuso con una perdita di 2,8 miliardi di dollari, la prima dal 1994, l’anno della quotazione. Tre giorni prima del crac, tutti i banchieri sapevano cosa stesse accadendo sui mercati e, nonostante i pareri discordi sulla solvibilità di Lehman, tutti erano convinti di una cosa, che gli asset immobiliari della banca fossero sopravvalutati. L’istituto era in teoria solvente nei numeri, ma aveva finanziato i suoi asset con una forte leva, cioè con poco capitale e molto debito e soprattutto attraverso finanziamenti a breve termine. Lo avevano fatto tutte la banche d’affari, ma l’azzardo di Lehman era stato superiore a tutti.
Venuti meno i finanziatori, la sua sopravvivenza era a rischio, perché non poteva più contrarre nuovi debiti per pagare quelli in scadenza. L’amministratore delegato di Lehman Brothers, Richard Fuld, aveva invece sostenuto sempre davanti alla Commissione che la sua banca era solvente: “Non c’era nessun buco in Lehman, avevamo 28 miliardi di dollari di capitale”. Per il numero uno di Lehman Brothers si trattava solo di una crisi di fiducia da parte del mercato, tanto da sostenere che il fallimento di un altro istituto, la Bear Stearns, fosse stato generato dalle continue voci negative e da una crisi di fiducia che aveva provocato a sua volta una crisi di liquidità, per di più in uno scenario di Borsa in cui gli speculatori scommettevano sul ribasso del titolo.