Su La Stampa Mattia Feltri commenta così l’idea di Di Maio (e del team comunicazione guidato da Rocco Casalino) di festeggiare dal balcone di Palazzo Chigi: “Il richiamo del balcone? C’è più Fantozzi che Mussolini”, e viene da dire che il giornalista abbia proprio ragione. L’immagine del vicepremier Di Maio che, affiancato dai suoi principali collaboratori, esulta, tra le ovazioni dei pentastellati raccolti nella sottostante piazza romana, dal balcone di Palazzo Chigi per l’approvazione della “manovra del popolo” voluta dal “governo del cambiamento” è, per certi versi, inquietante.
Ma è, anche, una immagine che rimanda alla funzione anche simbolica che, nel corso della storia, balconi, balconcini e tribune hanno avuto e al loro rapporto, in primo luogo, con i movimenti populisti o con i regimi autoritari. Questo tipo di “comunicazione” politica basata sul rapporto diretto con la folla affonda le radici nel tempo. Anche Tommaso Aniello – che aveva guidato la rivolta popolare dei “lazzari” napoletani e della cui salute mentale si cominciava a dubitare tanto che in giro si diceva “Masaniello è asciuto pazzo” – si affacciò dal balcone della sua abitazione per arringare la folla.
Non c’è, naturalmente, alcuna analogia tra Masaniello e l’esultante apparizione di Di Maio, se non appunto la presenza del balcone, l’autocelebrazione e il rapporto diretto con la folla (che per altro folla non era, ma erano tutti grilli a cui era stato ordinato di farsi trovare pronti là sotto). A dare al balcone una consistenza simbolica vera e propria, a farne cioè uno strumento di reale comunicazione politica, fu, secoli dopo, il poeta “immaginifico” Gabriele D’Annunzio.
Durante i mesi esaltanti dell’avventura fiumana, il Vate utilizzò il “discorso dal balcone” (già sperimentato per spingere l’Italia a entrare in guerra nel primo conflitto mondiale), per i suoi dialoghi costanti con la folla adorante. Venne poi il fascismo, con Mussolini che, dall’alto dell’ormai storico balcone di Palazzo Venezia (a confermare che il fascismo fu dannunziano e non viceversa), annunciava un futuro di grandezza per l’Italia e l’avvento delle “ore decisive” della storia. Vennero la guerra, le leggi razziali, la distruzione di una nazione intera e del mondo.
Si affacciò più volte da uno dei balconi di Palazzo Chigi Mussolini, quando ricopriva la carica di ministro degli Esteri (correva l’anno 1922) e aveva il suo studio alla Galleria Deti. Usò il balcone che attualmente fa angolo tra via del Corso e piazza Colonna, la cosiddetta ‘Prua d’Italia’, per pronunciare i primi discorsi che avrebbe poi replicato a Palazzo Venezia.
I discorsi dal balcone, quindi, nell’immaginario collettivo (soprattutto italiano) vengono quasi automaticamente collegati a situazioni storiche in qualche misura legate a esperienze populiste o autoritarie. Ci auguriamo che sia stato solo un episodio, e che abbia ragione Mattia Feltri: non ce ne voglia Gigino, ma è meglio che resti Fantozzi piuttosto che sbocci un altro Mussolini.