Francesco Guccini si è concesso a una lunga intervista al Corriere della Sera, dispensando, come sempre, perle di saggezza e di vita, spaziando tra ricordi e attualità. Nella casa di Guccini, a Pavana, come è risaputo ci sono più libri che dischi. “Io ho smesso di fare musica, non di leggere e di scrivere. Posso fare a meno delle canzoni e della chitarra, ma non della lettura”. Francesco Guccini è tornato a vivere sugli Appennini negli anni Novanta. “Da bambino abitavamo qui, una casa più vicina al fiume. Leggevo tutto quello che trovavo in giro. Pure i fumetti che non mi piacevano. Rubavo i romanzi d’appendice alla mia prozia, schifezze”.
Di recente è stato ad Auschwitz per la prima volta, nonostante il campo di concentramento abbia dato il titolo alla sua canzone più famosa. “Ad Auschwitz mi sono davvero chiesto che fine avesse fatto Dio mentre lì gasavano le persone. Un gigantesco cimitero senza croci: non si può non pensare alla composizione del concetto di giustizia. Dov’è la giustizia? Che cosa è davvero? È soltanto una parola?”.
Suo padre, che venne internato in un lager nazista, non gli raccontava nulla. “Non ha mai voluto parlarne. Però mandò due cartoline, che purtroppo ho perduto. So che era nello stesso campo di Guareschi, ma non si incontrarono mai, erano in migliaia. Sa che cosa facevano, alla sera? Si riunivano e, stremati dalla fame, evocavano il ricordo di quel pollo con le patate, di quella pasta con il sugo grasso. Poi annotavano tutto in un quaderno. Carta finissima e inchiostro annacquato, perché non ce n’era abbastanza. Lo facevano per non perdere la memoria del gusto. Per non perdere la speranza, dico io”.
Il padre non era felice del suo successo? “No. Mamma diceva sempre che lui avrebbe preferito un figlio giornalista o un figlio storico, cambiava versione a seconda dell’umore. Io, invece, non ho grande autostima. Ho studiato per fare il maestro ma ho insegnato solo tre giorni, una supplenza. Mi sono messo a suonare e a cantare quasi per caso, a Bologna. Ho fatto cose, certo. Ma non ho mai avuto la pretesa di incidere sulle coscienze”.
Però poi le sue canzoni hanno formato una generazione, guidandone l’impegno civile. “Ho sempre scritto canzoni per me, mica perché mi credevo un guru. Che poi, a tutti gli effetti, questo abbia prodotto un mondo nel quale si sono riconosciuti in tanti, be’, me lo lasci dire: questa è l’arte”. Guccini ha fatto della “giustizia proletaria” uno slogan. Quella giustizia, alla fine, forse oggi non ha vinto. “Certo che non ha vinto. Oggi la politica fa leva sulle paure, vere o percepite”.
“E guardiamo la propaganda: è il vero motore della politica. Però io sono tra quelli che non si meravigliano che tante regioni o province “rosse” siano diventate leghiste. La sinistra italiana è lacerata sin dal congresso di Livorno e, anche quando ha vissuto stagioni migliori, ha sempre avuto una natura autoritaria, direi intollerante. Insomma, quei comunisti che oggi sono leghisti, erano leghisti dentro, solo che non se ne accorgevano”.
Come sta Guccini? “Ho dolori alla schiena e alle gambe. Ormai ci vedo così poco che quel che riesco a vedere mi dà solo gioia. Soffro, piuttosto: io ho sempre divorato decine di libri all’anno e adesso faccio i conti con una malattia degli occhi, una maculopatia bilaterale. Non posso più leggere, così Raffaella o un’altra ragazza che viene a darci una mano, mi leggono i libri”. La televisione? “La guardo moltissimo: guardo anche quei programmi dove c’è gente contraria alle mie idee politiche per il solo gusto masochista di incazzarmi”.
“Sento dire cose assurde e comincio a sbraitare, a insultare. Però la tv mi mette davanti a cose che si muovono. Solo quello mi dà conforto: sono ancora capace di gioire davanti a persone, macchine, treni, aerei, cose che si muovono. È l’eredità di una generazione, la mia, cresciuta con il cinema”. Che cosa gli fa più paura oggi? “La paura stessa che leggo sulle facce della gente. Siamo un paese impaurito. Stanco, stremato. Ecco, questo mi spaventa davvero”.
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