E Giorgetti dice: “Chissà quanto dura… Facciamo qualcosa”. Dal “portiamo a casa la manovra e poi vediamo”, è passato a un più generico ma non meno indicativo “chissà quanto dura”. Sul governo un’idea personale l’avrebbe, ma Giorgetti per quanto a fatica riesce a trattenerla, perché condivide la strategia di Salvini. E la linea in questa fase prevede di non mettere piedi in fallo, per quanto proseguire l’esperienza del “cambiamento” con i grillini sia “come camminare su un ponte tibetano”. L’altra sera dopo l’approvazione del ddl Anticorruzione il Capitano ha voluto spiegarsi con la squadra, costretta a votare il provvedimento: “Le cose che non si capiscono ora si capiranno al momento opportuno”.
Il sottosegretario alla Presidenza, partecipe del disegno, si è prodigato a far ingurgitare la soluzione: mai e poi mai la Lega dovrà assumersi nei mesi a venire la responsabilità di una crisi di governo. Poi però ci sono dei momenti in cui il “fatto personale” prende il sopravvento, e i gesti conseguenti sono comunque gesti politici. Giorgetti infatti ha disertato gli ultimi Consigli dei ministri, dopo che in uno dei penultimi aveva chiesto ai colleghi cinquestelle di smetterla con gli attacchi personali sui giornali.
Invece, dalla “manina” sul decreto fiscale fino alle “manine” nelle votazioni segrete alla Camera, è sempre stato tirato in ballo come l’ispiratore dei complotti: “E io mi sono rotto”. Perciò Di Maio è stato costretto pubblicamente a discolparlo. Passi la marcatura a uomo a cui è costretto, da quando i grillini l’hanno preso di mira per via della competenza e delle conoscenze che emergono su ogni dossier. Persino nella gestione della trattativa con il Coni lui che ha la delega allo Sport ogni qualvolta ha incontrato Malagò è stato accompagnato da un sottosegretario del Movimento, Valente.
Ma in fondo questo è il gioco e Giorgetti si adegua. La sua stanza a Palazzo Chigi è un porto di mare per imbarcazioni in difficoltà di navigazione. È li che ha riparato Savona negli ultimi tempi, ed è lì che per sfogarsi il ministro agli Affari europei gli ha rubato uno dei suoi intercalare: “È un disastro”. L’altra frase che usa Giorgetti insieme al famoso “sono tutti matti” riferito ai grillini è “che cinema”.
Gliel’hanno sentita pronunciare nell’Aula della Camera, il giorno dopo quel voto a scrutinio segreto con cui l’esecutivo era andato sotto sull’Anticorruzione. Di Maio aveva chiesto la presenza di tutti i ministri ai banchi del governo per lavare l’onta. Giorgetti, che in vent’anni e passa di attività parlamentare ne aveva viste tante, non pensava di stupirsi ancora. Perciò nel vedere quella scena, non ha resistito: “Che cinema. Che cinema”. Teorico de “la manovra va cambiata”, ben prima che il club si affollasse di autorevoli colleghi, ritiene sia ancora possibile una soluzione di compromesso con Bruxelles.
Forse è più un atto di fede che un vero convincimento, in ogni caso secondo Giorgetti al governo servirebbe “un asso nella manica”, uno scatto e uno scarto rispetto alla logica del braccio di ferro: “Qualcosa bisogna inventarsela”. Perché è consapevole (al pari di pochi altri tra i grillini) che il reale problema stia nella gestione politica della trattativa. Ma su questo punto, oltre che dispensare suggerimenti non può né vuole spingersi. I suoi consigli sono post-it, attaccati nella stanza delle riunioni a futura memoria. “Attenzione ai mercati” è di luglio. “Così si va a sbattere” è di settembre. “Bisogna abbassare i toni” è di ottobre.
Giorgetti, come dicono i leghisti che lo conoscono da anni, “si trasforma in una testuggine e si ritrae nel suo carapace”. Palazzo Chigi sarà pure il regno dell’incertezza, ma la road map della Lega è chiara: in vista delle Europee niente errori e nemmeno sbavature, e se il “ponte tibetano” dovesse cedere prima sarebbe solo per responsabilità dei grillini. Il resto lo diranno le urne, e il cambio del sistema: secondo Giorgetti basta osservare la crisi del Pd e di Forza Italia per capire che fra pochi mesi sarà un altro mondo.
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