Quarant’anni fa veniva ucciso Giorgio Ambrosoli. Diversi colpi di pistola, una 357 Magnum. Così, la notte dell’11 luglio 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli viene assassinato sotto casa a Milano, in via Morozzo della Rocca, vicino al carcere di San Vittore. Ha passato l’ultima serata a casa di amici a vedere un incontro di pugilato in tv. È il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, travolta cinque anni prima da un crac che oggi varrebbe un paio di miliardi di euro.
La sua morte, a 45 anni, non appartiene ai misteri italiani. Lo uccise il criminale italo-americano William Aricò. Il mandante fu lo stesso Sindona, finanziere d’avventura piduista legato a Cosa nostra e ben introdotto nei salotti buoni della borghesia milanese e della politica romana.
Il movente? Ambrosoli si opponeva ai piani di salvataggio della banca, e della fedina penale di Sindona, a spese dei contribuenti. Giulio Andreotti e la Loggia P2 furono due soggetti che si attivarono per far passare questi piani. Il 14 luglio, il giorno dei funerali, intorno non c’era nessun uomo politico, né lombardo né romano, nessun sindacalista, il prefetto non c’è. Niente personalità. E perché?
Sei mesi prima dell’assassinio, Ambrosoli riceve questa telefonata: “Non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto bastardo!”. A parlare, appurerà l’inchiesta, è Giacomo Vitale, cognato del padrino di Cosa nostra Stefano Bontate e massone affiliato alla loggia coperta Camea di Palermo.
In un’intervista di Andreotti a La storia siamo noi, il programma di Giovanni Minoli, al giornalista che gli chiede perché Ambrosoli sia stato ucciso, il senatore a vita risponde: “Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando”.
Sì, se l’andava cercando l’avvocato Ambrosoli. Infatti conosceva perfettamente i rischi a cui andava incontro. Per questo è stato e sarà sempre un esempio per tutti. L’eroe borghese era solo.
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