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Perché il governo gialloverde non ha fatto nulla per i giovani: numeri alla mano

In questa manovra spicca la pesante assenza di politiche capaci di smuovere il mercato del lavoro degli under 30, uno dei blocchi sociali più vulnerabili e meno tutelati nel sistema economico italiano. Anzi, il problema è che la “manovra del popolo” si scaricherà sulle spalle delle nuove generazioni. A sei mesi dall’insediamento dell’esecutivo, dopo un tira e molla estenuante con Bruxelles per il suo ok, il problema è rimasto dov’è. La manovra è stata stravolta rispetto al testo originario, a partire dal sospirato taglio sul deficit, ma non si vedono politiche mirate allo stimolo di un’occupazione stabile e di qualità per chi ha meno di 30 anni.

Le due anime del governo, Lega e Cinque Stelle, hanno discusso con Bruxelles e fra di loro su riforma del sistema pensionistico, taglio agli assegni d’oro, reddito di cittadinanza, tasse sulle utilitarie, oltre a dedicare decreti e mozioni al cavallo di battaglia della “emergenza migranti” che non esiste proprio. L’enfasi, però, svanisce quando si tratta di affrontare disoccupazione e inattività giovanile, in teoria fra le emergenze economiche del paese.

A novembre 2018, l’ultimo mese a disposizione, l’Istat registra un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 32,5% e un tasso di inattività nella fascia 25-34 anni in salita a 26,7%(+0,5% rispetto a un anno fa), mentre la quota dei cosiddetti Neet (i giovani che non studiano né lavorano) si è inerpicata fino al 25,6% nella fascia 18-29 anni. Il part time involontario, di fatto una forma mascherata di precariato, ha raggiunto nel terzo trimestre 2018 un picco del 77,1% sul totale dei contratti a tempo parziale siglati nella fascia 15-34 anni, in rialzo dal 75,6% del secondo trimestre 2018 e in esplosione dal 51,4% del 2008.

Il mercato soffre ancora di tempi lunghi per la transizione dalla formazione al lavoro e di un ricambio generazionale bloccato. Ci sarebbero i presupposti per inserire la questione under 30 in cima alla lista dei cambiamenti necessari. Non sembra essere così. L’unico provvedimento centrato sul lavoro in senso stretto varato dal governo Lega-Cinque stelle il cosiddetto decreto dignità, il pacchetto di norme che scoraggia i contratti a tempo determinato fissando dei vincoli sul loro rinnovo.

Finora l’effetto del decreto è stato più quello di frenare il rinnovo dei contratti (-13mila contratti a termine fra settembre e ottobre 2018, dopo sette mesi a segno più) piuttosto che favorire un robusto incremento di quelli a tempo indeterminato (+37mila fra settembre e ottobre 2017, ma a fronte di un calo di 64mila unità nel periodo agosto-ottobre rispetto a maggio-luglio 2018). Quello che davvero serve è massimizzare la valorizzazione della formazione e del capitale umano delle nuove generazioni mettendo le aziende nelle condizioni di aumentare le opportunità offerte.

È quindi l’approccio di partenza che va ribaltato. Un altro pilastro per la ricerca di lavoro dovrebbe essere rappresentato dal reddito di cittadinanza, sia pure nella versione depotenziata (ora costa “solo” 7,1 miliardi di euro, poco sotto ai 7,3 miliardi stanziati per il finanziamento all’università) uscita dai negoziati con Bruxelles.  Anche qui, però, c’è un errore di prospettiva: per come è stato configurato, l’assegno assomiglia a una politica più passiva che attiva, più vicina al sussidio che alla promozione attiva del lavoro.

Ma il colpo più grave, agli occhi del mondo universitario, è il blocco completo delle assunzioni fino al 15 novembre 2019: una barriera che rallenta, ulteriormente, il ricambio interno a un sistema già falcidiato dai tagli dei precedenti esecutivi.

Lo stop alle assunzioni ha riguardato anche l’Inps, l’istituto nazionale di previdenza sociale. A dire di Tito Boeri, il suo presidente, la misura congela così un totale di 2.698 assunzioni di giovani funzionari previste per il 2019. Il ricambio fra generazioni è rinviato di 12 mesi. Forse.

 

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