L’importanza del settore agroalimentare per l’economia del nostro paese è fatto noto (il fatturato del 2017 pare si attesterà sui 135 miliardi di euro) ma, nonostante il forte appeal del brand “Made in Italy” per tutto ciò che riguarda cibo e vino, non è facile per le aziende italiane del comparto affrontare i mercati contemporanei.
Dalla questione delle dimensioni (per la maggior parte si tratta di imprese medio-piccole spesso a gestione familiare) a quella della cultura organizzativa di base, le aziende italiane dell’agroalimentare presentano caratteristiche e modelli manageriali che andrebbero integrati con le esigenze del mercato internazionale e con i desiderata dei consumatori, che in tema di cibo e vino sono sempre più esigenti e sensibili.
Di management del Food e Wine abbiamo parlato con Gabriele Troilo, Professore associato di Marketing presso l’Università Bocconi di Milano e presso la SDA Bocconi School of Management, e Associate Dean della Open Market and New Business Division della SDA Bocconi.
In una guida in due parti abbiamo messo a fuoco alcune caratteristiche tipiche delle imprese italiane del settore, i punti di forza e quelli di debolezza e alcuni trend sui quali vale la pena concentrarsi per aumentare ulteriormente una capacità di mercato già ottima e predisporsi alle innovazioni che il mondo contemporaneo richiede.
Professor Troilo, qual è la situazione dell’agroalimentare italiano?
Dal punto di vista delle performance della filiera, intesa dalla produzione delle materie prime fino alla vendita al consumo, la situazione è molto positiva, direi quasi florida. Il comparto agroalimentare contribuisce all’export italiano in maniera significativa, e negli ultimi anni questo dato ha portato a una consapevolezza diffusa presso le aziende che il vero grande mercato è quello estero, elemento che, a sua volta, ha favorito un salto di qualità imprenditoriale generale. Qui alla Bocconi per la prima volta abbiamo lanciato un programma per imprenditori agricoli che si chiama “Agribusiness”: i destinatari sono manager di aziende agroalimentari che vogliono aumentare le proprie competenze e uscire dall’idea di una gestione aziendale basata sulle capacità del singolo imprenditore, spostandosi piuttosto verso un’idea di organizzazione più strutturata fondata su ruoli e competenze definite. Il partecipante tipo è un imprenditore di seconda/terza generazione che sente l’esigenza di acquisire competenze manageriali in grado di guidarlo nelle sue azioni quotidiane: non è ancora lo standard per tutti gli imprenditori agricoli, ma ci si sta movendo nella direzione giusta.
Dal punto di vista dell’innovazione invece, le imprese italiane sono cronicamente in ritardo. Nei prossimi anni la filiera agricola sarà sconvolta dall’innovazione: al momento c’è un eccesso di domanda rispetto all’offerta, e il contributo dell’agribusiness al pianeta sarà di garantire risorse alimentari per tutti; obiettivo perseguibile grazie alle straordinarie tecnologie di cui disponiamo oggi. L’agricoltura così come è stata finora non può più rispondere a una domanda in continua crescita, e per questo necessariamente innoverà. Pensiamo all’agricoltura di precisione, alla meccanizzazione della raccolta di frutta e ortaggi attraverso i robot, alla misurazione delle necessità del terreno in base alle condizioni climatiche tramite droni: l’innovazione è uno dei vettori del futuro, ma su questo purtroppo le imprese italiane sono indietro. Per quanto stiano nascendo una serie di startup che lavorano sul tema dell’innovazione nell’agribusiness, per quanto soggetti come il Fondo Italiano Investimenti stiano sostenendo in maniera importante gli investimenti nel settore (e non lo farebbero se non si aspettassero ritorni adeguati), il vero limite all’innovazione per le imprese agricole italiane è la piccola dimensione. Per motivi storici la nostra agricoltura infatti è iper-frammentata, e molti investimenti richiedono una scala di dimensione che le imprese italiane non hanno. Una soluzione a questo problema è l’aggregazione delle piccole imprese in consorzi, associazioni, reti e network vari, ma su questo c’è una resistenza culturale fortissima che evidenzia come il problema vero non sia la dimensione piccola in quanto tale, ma piuttosto la difficoltà a superare tale dimensione attraverso la collaborazione con altri soggetti.
Il fatto che l’agricoltura italiana sia stata per anni (e in parte ancora lo è) dipendente dalle politiche nazionali ed europee di sussidio non è un incentivo alla crescita intesa nei termini di una migliore organizzazione aziendale. Oggi chi innova lo fa per competenze e stimoli personali più che organizzativi, mentre invece il vero salto di qualità avviene quando l’impresa intera si orienta verso una politica volta all’innovazione, aumentando le proprie risorse e investendo in beni e strumenti che la favoriscano (sulle agevolazioni fiscali messe a disposizione dal governo abbiamo parlato qui).
Aggiungo inoltre una riflessione: dobbiamo distinguere tra i concetti di “piccolo” e “nicchia”. La piccola dimensione aziendale non significa necessariamente che i prodotti siano di nicchia: per nicchia si intende una differenziazione del prodotto rispetto ai propri competitor riconosciuta presso un determinato segmento di mercato, mentre piccolo significa piccolo e basta. Io credo che il superamento delle piccole dimensioni dovrebbe essere un obiettivo dl sistema dell’agribusiness italiano e delle singole imprese che vogliono innovare, accedere ai mercati internazionali e al grande mercato della GDO che richiede necessariamente delle modalità di produzione, distribuzione e vendita che le piccole aziende ad oggi non possono di sostenere. Non è sempre la tecnologia che crea innovazione, quanto piuttosto una qualsiasi variazione di valore nella proposizione dei prodotti sul mercato: se guardiamo al caso del biologico, ad esempio, l’Italia è stata in grado di costruirsi un’identità forte sul mercato, e lo ha fatto come “sistema”: questo è un ottimo esempio di come si può innovare nel settore agroalimentare anche senza focalizzarsi necessariamente sulle innovazioni tecnologiche.
Quindi secondo lei come possono le imprese italiane del Food e Wine fare la differenza nel contesto globale?
Io credo che nel caso dell’Italia la chiave di volta sia il sistema paese nel suo complesso. L’Italia ha un’immagine fortissima riconosciuta a livello globale legata alla qualità della vita, che nel nostro paese è superiore (o riconosciuta come tale) a qualsiasi altro posto del mondo. Una parte di questa eccezionale qualità della vita è legata sicuramente al nostro modo di alimentarci: la dieta mediterranea, gli ortaggi freschi, il pesce, l’olio extravergine di oliva, il vino, sono dei capisaldi della alimentazione di cui tutti ormai conoscono i benefici. Quando i nostri prodotti arrivano sui mercati esteri si portano dietro questo sostrato culturale (il famoso “Italian life style”) che li rende immediatamente riconoscibili e apprezzati a tutte le latitudini. In generale, i consumatori stranieri non percepiscono lo scarto di qualità tra un prodotto italiano vero e uno “italian sounding”, ma conoscono e acquistano l’italianità del prodotto intesa proprio nel senso di “Made in Italy” e di “Italian life style”, quella capacità cioè tutta italiana di godersi la vita e stare bene che sta dietro e alla base di ogni nostro prodotto.
È un vantaggio competitivo che ereditiamo quasi nostro malgrado, e che probabilmente per essere valorizzato al massimo dovrebbe essere integrato con altre filiere come quella dell’accoglienza, del turismo e della creatività in generale. La qualità della vita italiana infatti è data dalla combinazione di bello, buono, piacevole, fattori che sono presenti nei prodotti italiani grazie a una creatività espressa attraverso l’arte, la moda e l’artigianalità che ci differenzia rispetto al resto del mondo e ci rende unici.
Il punto però è che questo enorme patrimonio culturale e conoscitivo ha bisogno di organizzazione per essere valorizzato e promosso: deve essere cioè “sistematizzato” e gestito con competenze manageriali che spesso mancano alle nostre aziende tanto che si arriva al paradosso, purtroppo, in cui l’italianità come punto di forza coincide con l‘italianità come punto di debolezza. Il Made in Italy si associa, anche in senso negativo, a disorganizzazione, arretratezza culturale e imprenditoriale, scarsa cultura manageriale necessaria a competere nei mercati contemporanei. La cultura artigianale di saper fare qualcosa non significa anche saper amministrare, gestire, promuovere e vendere: il management del Food e Wine non coincide cioè col produrre ottimi prodotti agroalimentari.
Questa lacuna tipicamente italiana nell’organizzazione aziendale è trasversale a tutti i settori, ma in quello agricolo assume dimensioni rilevanti proprio a causa delle dimensioni mediamente piccole delle aziende del comparto. Si tratta di una carenza culturale nel disegno e nell’implementazione di tutti quei processi aziendali che rendono l’impresa efficace ed efficiente: dall’assegnazione di ruoli e responsabilità alla gestione delle risorse, dal procurement alla vendita, fino alla distribuzione. In tutti i comparti e le funzioni aziendali i criteri di scelta dovrebbero essere d’ora in avanti guidati da competenza e formazione, da una conoscenza approfondita delle materie di riferimento in un’ottica manageriale più che familiare o strettamente personale.