In questa seconda parte della Guida al management di Food e Wine continuiamo la nostra chiacchierata con Gabriele Troilo, Professore associato di Marketing presso l’Università Bocconi di Milano e presso la SDA Bocconi School of Management, e Associate Dean della Open Market and New Business Division della SDA Bocconi.
Dopo un primo excursus su alcune caratteristiche distintive dell’aziende italiane dell’agroalimentare, e un’analisi strategica del brand “Made in Italy”, diamo uno sguardo a cosa ci riserva il futuro e in particolare al mondo del vino, uno dei più comparti più in forma dell’economia nazionale.
Quali sono i trend per il futuro nel settore del Food e Wine?
Faccio una premessa. Nella teoria dell’innovazione si dice che le innovazioni possono essere di due tipi: “supply driven”, guidate dall’alto o da fattori esterni come la tecnologia, e “demand driven”, guidate dalle esigenze dei consumatori. Molte delle innovazioni cui stiamo assistendo negli ultimi anni sono supply driven: robotica, intelligenza artificiale, IoT sono tutte tecnologie in incubazione da molto tempo che stanno arrivando ora ai consumatori. Proverò quindi a rispondere alla domanda parlando di trend e innovazioni “demand driven”, relativi cioè al punto di vista dei consumatori e alla loro percezione soggettiva.
Io personalmente vedo due macro tendenze: una, generalizzata, all’aumento della qualità della vita e quindi di conseguenza anche all’aumento della qualità dei prodotti agroalimentari che consumiamo; l’altra relativa a una diffusa contaminazione di prodotti, gusti e culture alimentari diverse che convergono sul nostro territorio nazionale.
Sulla prima, dallo sport all’alimentazione, è indubbio che ci sia una maggiore attenzione alla salute e al benessere da parte di tutti. I consumatori associano a una migliore qualità della vita un’alimentazione più corretta e salutare, e questo ha portato a fenomeni come il biologico, i cibi light, i vini naturali. Dal dopoguerra in poi in Italia si è raggiunta un’aspettativa di vita altissima, una mortalità e un tasso di malattie tra i più bassi del mondo, tutte conquiste direttamente collegate alle nostre abitudini alimentari e al nostro stile di vita in generale.
Sulla seconda, io vedo una generalizzata predisposizione alla contaminazione: dal punto di vista del gusto gli italiani stanno diventando sempre meno tradizionalisti e si aprono volentieri a cucine diverse e a prodotti esotici. I miei studenti ventenni mangiano indifferentemente sushi o pizza; anzi, forse ormai mangiano più sushi che pizza. Parallelamente, questa apertura alla diversità porta con sé anche una de-standardizzazione dei prodotti del Food e Wine: oggi al mercato rionale come al supermercato non troviamo più “i pomodori” in generale, ma troviamo tantissime varietà di pomodori: varietà locali che si differenziano per territorio di produzione e quindi per proprietà organolettiche, varietà stagionali che si differenziano in base al periodo di produzione, varietà geografiche di uno stesso alimento (gli avocado israeliani sono diversi da quelli cileni o peruviani, per esempio). Prendiamo l’olio extravergine di oliva: ormai lo scegliamo in base alle cultivar e alla zona di produzione, così come il caffè. I consumatori cioè sono esposti a una varietà di prodotti prima impensabile, e questa maggiore offerta stimola una maggiore apertura culturale da parte di tutti.
Sono più scettico invece nei confronti di trend come il delivery, che sono tipici di altre culture: in Italia siamo molto legati alle nostre abitudini alimentari ed è difficile che un’azienda o un prodotto le cambi. Tuttavia, se pensiamo al fatto che la più grande catena di pizza a domicilio del mondo, Dominos Pizza, ha aperto con successo anche in Italia, ci rendiamo conto di come in effetti ci sia spazio anche per delle novità centrate sia sul prodotto che sulle modalità di consumo.
Qual è la situazione del vino italiano? Si parla spesso dell’incapacità delle aziende italiane di adottare strategie di marketing vincenti e di un prezzo medio molto basso
Innanzitutto ci sono alcuni casi particolarmente felici come quello del Prosecco: all’estero ormai è Prosecco-mania, e sembra che le vendite del nostro spumante nazionale abbiano superato quelle dello Champagne. E poi credo che la situazione vada analizzata approfonditamente: se prendiamo tutto il vino venduto nel mondo, vediamo che circa il 75% costa meno di 3 dollari al litro. Su questi mercati l’Italia ha sempre avuto una competitività forte grazie a una produzione con quantitativi importanti e a una qualità media molto elevata (almeno dagli anni ’90 in poi). Negli ultimi anni anche altri produttori sono entrati in questa fetta di mercato: ci sono i vini cileni e argentini ad esempio che sono buoni e costano ancora meno dei nostri. Il vino italiano ha ancora un posizionamento molto basso sul mercato, ma è pur vero che quella dei vini a basso costo è la parte più ampia del mercato. E non è detto che l’Italia sia in grado di competere nella fascia di mercato dei “fine wines”, che è invece un mercato molto ristretto.
La qualità dei vini italiani è cresciuta in termini straordinari negli ultimi anni, e gli enologi fanno vini sempre più adatti ai mercati internazionali, quindi direi che il comparto gode di ottima salute. Una tendenza che secondo me andrebbe superata è quella di identificare la qualità con le denominazioni di origine: alcuni grandi produttori di vino del mondo sono usciti dalla strettoia dei disciplinari, che di per sé indicano che un vino è fatto in un certo modo, ma non che sia buono.
Io credo che le denominazioni di origine siano importanti, ma non possiamo usarle come una gabbia protettiva nei confronti dell’esterno: se in Cina vogliono realizzare il Parmigiano facessero pure, sta a noi dimostrare che il nostro è più buono. Quel che voglio dire è che è giusto tutelare i marchi e i prodotti italiani, ma al contempo dobbiamo uscire da una cultura imprenditoriale anti-competitiva che cerca di “conservare” l’italianità dei prodotti limitando le innovazioni altrui.
Il management del Food e Wine oggi si gioca su vari fronti, ma indubbiamente è fondamentale per le aziende italiane crescere in termini di competenze manageriali e organizzative per poter fronteggiare un mercato internazionale sempre più competitivo, sfruttare appieno le tecnologie oggi disponibili e intercettare, se non anticipare, le esigenze dei consumatori.