L’Ilva è la maggiore azienda siderurgica del Paese (per lunghi anni di proprietà pubblica) e quello di Taranto è il più grande stabilimento d’Europa. I dipendenti diretti sono 10.700 (8.200 solo a Taranto), mentre quelli stimati nell’indotto sono intorno ai 3000-3500. Secondo le analisi econometriche dello Svimez, la ex Ilva rappresenta l’1,4% del Pil italiano. Per questo, di fronte, a questi numeri è impossibile restare indifferenti se si fa sempre più solida l’ipotesi di una chiusura definitiva. La fabbrica pugliese è da anni al centro delle polemiche per gli effetti dell’inquinamento. Per questo si è parlato a lungo di riqualificazione, rilancio e bonifica.
Esattamente quello che avrebbero dovuto fare i nuovi proprietari di ArcelorMittal ma che hanno liquidato la faccenda inviando una lettera di addio al governo. Un anno fa la ex Ilva, dopo la gestione della Famiglia Riva travolta da guai giudiziari, e un periodo di commissariamento, è passata al gruppo indoeuropeo.
Il passaggio, ratificato dall’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e ratificato dal suo successore Luigi Di Maio, prevede 18 mesi di affitto (a decorrere dall’1 novembre 2018) al termine dei quali ArcelorMittal rileverebbe la proprietà per 1,8 miliardi (detratto il canone pagato in precedenza). L’accordo prevede anche investimenti ambientali per 1,1 miliardi, industriali per 1,2 miliardi e il mantenimento dei livelli occupazionali. Come si è arrivati, dunque, alla lettera di ieri?
Gli accordi sulla realizzazione del piano industriale e ambientale prevedevano uno scudo penale per gli amministratori dell’azienda. Una tutela cancellata con un voto al Senato dell’attuale maggioranza giallorossa. ArcelorMittal ritiene la conferma dello scudo dirimente per proseguire nei piani. A determinare la decisione di ieri dell’azienda, anche la prossima chiusura (13 dicembre) di uno degli altiforni di Taranto, imposta dalla magistratura in mancanza di una sua messa a norma.
Come riporta anche Repubblica, secondo l’azienda il contratto di affitto e comodato con gli ex commissari Ilva prevede una clausola di recesso per “l’affittuario” degli stabilimenti. Il diritto è assicurato nel caso in cui un provvedimento legislativo renda impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto o irrealizzabile il piano industriale. Il governo nega l’esistenza di questa clausola.
Secondo Carlo Calenda, che in qualità di ministro firmò gli accordi, la clausola c’è ma ArcelorMittal non potrebbe chiudere autonomamente gli altoforni, perché il diritto di recesso va prima accertato dal Tribunale. Ora la palla passa al governo che ha convocato un tavolo straordinario per cercare di risolvere l’emergenza. Ci sono migliaia di posti di lavoro a rischio.
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