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Dal Darfur all’Italia, in fuga dai lager dove le guardie affamano i bambini

Un racconto di disperazione, sofferenza. Una fuga verso l’Italia per lasciarsi alle spalle un orrore troppo grande per essere vissuto ancora. Una delle tante storie di persone che hanno deciso di fuggire dal proprio Paese e affrontare il viaggio della speranza, quello che passa per il Mediterraneo, verso l’Europa, in cerca di un futuro migliore. Massimiliano Coccia attraverso le pagine del Foglio ha raccolto, insieme ad Andrea Billau di Radio Radicale, la storia di quanto persone arrivate in Italia dal Darfur. 

“Appena si siede davanti a me noto che Mohamed ha un viso ruvido, una barba incolta e tante cicatrici sul viso, porta male gli anni che ha, ma come potrebbe essere altrimenti. Fatima, sua moglie, è visibilmente più giovane ed è bellissima. I suoi lineamenti dolci, incastonati in uno scialle bianco che si avvolge intorno alla testa, mettono ancora più in risalto la sua pelle scura e delicata. Mohamed e Fatima si amano e insieme sono scappati da un inferno che si chiama Sud Sudan, raso al suolo dal conflitto del Darfur”.“Sono arrivati in Italia qualche settimana fa con un corridoio umanitario e ora se ne stanno a Rocca di Papa a Mondo Migliore, un centro che guarda il lago di Castel Gandolfo, un posto dove si ricuce la vita. Appena incontro questa coppia noto i loro quattro figli, minuti e felicissimi, del tutto uguali a qualsiasi bambino italiano pieno di gioia e di energia. Per un momento penso che non sia possibile che abbiano vissuto la stessa traversata dei genitori e mi convinco che li abbiano messi al mondo dopo esser arrivati qui.

Mi sembrano troppo felici per aver percorso le rotte dei trafficanti di uomini ed essere approdati in Libia e invece il padre mi racconta che sono partiti tutti e quattro, hanno attraversato il deserto e hanno provato per ben due volte ad arrivare in Italia: ‘Quando siamo arrivati a Tripoli abbiamo dato dei soldi a uno scafista perché ci portasse via da quell’inferno, la prima volta siamo stati riportati indietro dalla Guardia costiera libica che ci ha solo guidato dentro il porto, la seconda invece dopo averci maltrattato ci ha chiuso dentro un container e da lì siamo stati portati in un campo di concentramento'”. “Lui dice a denti stretti per la rabbia che i figli sono stati presi a calci dalla Guardia costiera e che sono rimasti sporchi di nafta e sabbia per molti giorni. Avrei dovuto difenderli di più, la mia rabbia nel vederli trattati così era tanta, ma cosa potevo fare?’. Una volta arrivati nel lager, Mohamed e Fatima vengono divisi. Da una parte lui, e dall’altra lei con i figli. Qua il suo volto si fa cupo e mi dice che in quel momento ha pensato che non li avrebbe rivisti mai più, anche perché ‘la Libia è razzista e piena di trafficanti di organi. A quel pensiero ho chiesto a Dio di farmi morire’. Fatima assiste al racconto del marito con sguardo serio, tiene al petto, Giusi, la più piccola, mentre parliamo la allatta. Vedere il corpo esile, piccolo di Giusi e raffigurarmela dentro un lager mi provoca un enorme dolore. Fatima racconta che il cibo dentro i lager era pochissimo e che se qualche bambino si lamentava veniva punito togliendogli per giorni interi quel poco riso che elargivano i carcerieri: affamavano i bambini.Un giorno ho pensato che tutto sarebbe finito male, perché al campo maschile c’era stata una rivolta di prigionieri, chiedevano acqua e cibo e avevano sfondato un cancello. Ho visto partire dal nostro campo camionette che si sono lanciate contro i dimostranti – mi dice con le mani che adesso tremano – ho chiesto se Mohamed era vivo ma nessuno sapeva rispondermi. Sono stati giorni durissimi, con i bambini che chiedevano del padre’. Mohamed interrompe il racconto di Fatima, vuole specificare che il suo rimanere silenzioso, giudizioso non era perché non aveva coraggio ma perché aveva capito che solo col silenzio ci si salva.

“‘Io sono fuggito per loro, per dargli un futuro diverso perché il futuro dalle nostre parti è per sottrazione. Si fanno tanti figli per sperare che almeno qualcuno sopravviva, a me ne sono sopravvissuti quattro’ mi dice Mohamed. ‘Il mio dovere adesso è farli essere felici qui e raccontare di tutti quei padri che non ce l’hanno fatta, di tutte quelle madri che si sono prostituite per dare un tozzo di pane in più ai figli. Io credo che loro saranno figli felici, credo che un giorno, quando saremo invecchiati, anche noi potremo cominciare a essere felici'”.

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