Il tricloroetilene (TCE), un prodotto chimico meglio conosciuto con il nome di trielina e fino agli anni Settanta ampiamente utilizzato in innumerevoli applicazioni industriali, commerciali, militari e mediche, può essere una delle cause del morbo di Parkinson. Lo evidenzia un nuovo studio pubblicato sul Journal of Parkinson’s Disease da un team internazionale di ricercatori, tra cui i neurologi del Centro medico dell’Università di Rochester (USA) Ray Dorsey, Ruth Schneider e Karl Kieburtz, in cui si mette in relazione l’esposizione (spesso inconsapevole) a questa sostanza chimica con l’aumento globale dei casi di malattia, più che raddoppiati negli ultimi 30 anni. La rivista Jama Neurology, la più accreditata per quanto riguarda gli studi neurologici, attraverso uno studio effettuato su oltre trecentomila veterani di guerra statunitensi, ha cristallizzato un rischio più elevato – addirittura in termini del 70% – di sviluppare il morbo di Parkinson a seguito del contatto con la sostanza. “Milioni di persone in tutto il mondo sono state e continuano ad essere esposte a questo onnipresente contaminante ambientale”, si può leggere nel Journal of Parkinson’s Disease pubblicato da Jama Neurology.
“Il tricoloroetilene è una semplice molecola a sei atomi che può decaffeinare il caffè, sgrassare le parti metalliche e lavare a secco i vestiti – scrivono i ricercatori nel loro articolo – . La sostanza chimica incolore è stata collegata per la prima volta al parkinsonismo nel 1969”. Una volta penetrato nel suolo e nelle acque sotterranee, il tricloroetilene può persistere per decenni prima di essere smaltito e, inoltre, il tempo che intercorre tra l’esposizione e l’insorgenza della malattia può essere di decenni anch’esso, come sottolineano gli autori dello studio: “Riteniamo che vi sia uno scarto temporale fino a 40 anni tra l’esposizione al solvente e l’inizio della malattia”. Nel caso della base dei Marines, la trielina era penetrata nel sistema dell’acqua potabile attraverso “perdite di serbatoi di stoccaggio sotterranei, fuoriuscite di aree industriali e siti di smaltimento rifiuti”, come ricostruì all’epoca l’Agenzia per le sostanze tossiche e il registro delle malattie (ATSDR) degli Stati Uniti e come leggiamo su Affaritaliani. “Questo nuovo studio fornisce la prima prova basata sulla popolazione a sostegno dell’ipotesi che il tricloroetilene possa causare il Parkinson, aggiungendosi alle prove ben documentate che il tricloroetilene è anche cancerogeno” ha affermato la dottoressa Natasha Fothergill-Misbah dell’Università di Newcastle.
In particolare, gli studiosi hanno indicato diverse ricerche, di cui una che coinvolge tre lavoratori in impianti industriali e una che riguarda un meccanico di automobili. In uno studio su 198 gemelli condotto nel 2011, quelli esposti al tricloroetilene avevano una probabilità cinque volte maggiore di sviluppare il morbo di Parkinson. Nonostante questi studi e altre ricerche che mostrano gli effetti dannosi del tricloroetilene sugli animali, l’esatta natura della correlazione deve ancora essere confermata. Ciò è dovuto a numerose ragioni, tra cui la scarsa consapevolezza di ciò con cui le persone sono venute in contatto o la presenza di un’esposizione contemporanea a diverse sostanze chimiche potenzialmente tossiche.
“Il tempo che intercorre tra l’esposizione e l’insorgenza della malattia può essere di decenni – aggiungono gli studiosi – . Gli individui, se fossero consapevoli della loro esposizione alla sostanza chimica, potrebbero essersene dimenticati da tempo”. “Coloro che hanno lavorato con il solvente o che vivevano vicino a un sito contaminato potrebbero aver cambiato lavoro o essersi trasferiti, rendendo difficile la valutazione retrospettiva dei potenziali cluster”. Ad ogni modo, davanti ai rischi per la salute