La pandemia globale di coronavirus in corso ha reso indispensabile la diffusione massiccia, dove possibile, del lavoro da casa, il cosiddetto smart working. Anche l’avvio della fase 2 mette ancora al centro il lavoro da remoto: solo in Italia saranno 8 milioni i lavoratori che continueranno a svolgere le loro mansioni aziendali da casa. Ma la notizia forse inaspettata è un’altra. Secondo un’indagine dell’Osservatorio Lockdown di Nomisma, anche quando si tornerà alla “normalità” il 56% dei dipendenti vorrà comunque continuare con lo smart working. Anche la Pubblica Amministrazione, che è passata da una quota di poco superiore al 10% di lavoratori da remoto all’80% per le amministrazioni centrali e a quasi il 70% per le Regioni, l’obiettivo è di mantenere in smart working anche in futuro almeno il 30-40% dei dipendenti.
Alla luce di questi dati, viene da chiedersi se le modalità di questo smart working obbligatorio, in molti casi improvvisato, dovrebbero essere corrette. Un’inchiesta appena pubblicata da Bloomberg denuncia come molti americani si sentano soffocati dallo smart working, gli intervistati lamentano di lavorare in media tre ore in più al giorno, e di avere molte più difficoltà di prima a separare la sfera lavorativa da quella privata. Anche in Italia, pur a fronte di una generale soddisfazione per il lavoro da remoto, stanno emergendo problemi di questo tipo. “Io non lavoro più da casa. Ho scelto di venire qui in ufficio: così quando finisco nessuno può più telefonarmi per chiedermi di fare ancora qualcos’altro”, ha raccontato Elisabetta a la Repubblica, quadro in un’azienda di Roma: dopo le prime settimane di smart working quasi obbligato, a causa della pandemia da coronavirus, ha scelto di tornare in ufficio per ristabilire una separazione tra il tempo del lavoro e quello privato.
“Anche dal nostro monitoraggio, dopo l’entusiasmo iniziale – conferma Mariano Corso, responsabile dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano – emergono stanchezza, difficoltà dovute al fatto che la sfera del lavoro è diventata terribilmente invasiva. Secondo le nostre stime, siamo passati a poco meno di 600 mila lavoratori (dato rilevato l’anno scorso) a un potenziale di otto milioni: non tutte le aziende erano preparate, ai lavoratori si chiede spesso fin troppa flessibilità. È un problema da affrontare perché si andrà avanti con questo ritmo per almeno altri 6-9 mesi, e poi, anche dopo, sarà difficile tornare indietro, non si tornerà alla situazione precedente, molte riunioni si svolgeranno da remoto”.
Persino nelle aziende che si erano preparate da tempo allo smart working sia dal punto di vista dell’organizzazione che degli strumenti, ci sono forti perplessità dovute all’invasività del lavoro da remoto. Digital360 Spa, società quotata sul mercato Alternativo del Capitale, gestito da Borsa Italiana, ha riscontrato attraverso un’indagine interna la quasi totale soddisfazione professionale dei propri dipendenti, che nell’88% dei casi ritiene che in questa situazione di smart working forzato la propria efficacia lavorativa sia invariata o migliorata. Anche gli incontri a distanza con i colleghi vengono valutati in modo positivo dal 90% dei dipendenti. Però, quando si parla invece della conciliazione tra vita privata e lavoro, meno della metà, solo il 45% dei dipendenti, la valuta come buona o ottima.Già nella Fase 2 bisognerà dunque riprendere rapidamente la legge sullo smart working che prevede una norma molto importante: il diritto di disconnessione, sancito peraltro anche da alcuni (pochi) contratti collettivi di lavoro, a cominciare da quello dei bancari.
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