di Eleonora Celestini
“In quasi tutti i paesi del mondo stiamo assistendo a un imponente arretramento dello Stato, giustificato con la necessità di ridurre il debito e con l’esigenza di rendere l’economia più ‘dinamica’, ‘competitiva’ e ‘innovativa”. Anche alla luce della più stretta attualità, vale la pena proporre una rilettura de “Lo Stato innovatore” di Marianna Mazzuccato, tra i maggiori studiosi dei processi di innovazione e docente di economia allo Spru dell’Università del Sussex, nel suo “Lo Stato Innovatore” (Anticorpi Laterza, 2014), un trattato di economia industriale che si è posto come un tentativo di scardinare concezioni che l’autrice ha ritenuto insufficienti a rispondere alle esigenze delle economie avanzate.
Impresa privata e azienda pubblica. Capitale privato e risorse pubbliche. Da sempre la distinzione tra questi due elementi ha contribuito a diffondere una visione dello Stato come inerte, troppo pesante per fungere da motore dinamico dei processi di sviluppo. L’idea di fondo della Mazzuccato è che lo Stato di un’economia avanzata, attraverso fondi decentralizzati, debba finanziare lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla loro commercializzazione. Il che non vuol dire sostituirsi all’iniziativa privata, bensì affiancarla nei rischi d’impresa per godere insieme dei profitti. Perché se uno Stato imprenditore prospera, prosperano i suoi cittadini, che dello Stato sono azionisti.
L’intento che sta dietro questo libro, definito dalla stessa autrice “una battaglia discorsiva”, è quello di smontare le convenzioni dell’economia classica e di allargare la concezione che si ha dello Stato, mostrandolo non più come entità matrigna, sterile, distante, incapace di essere forza innovativa, ma come motore stesso dell’economia di un Paese, come responsabile in partenza del rischio finanziario iniziale necessario per ampliare i processi di sviluppo e di costruzione del futuro. “Da leviatano burocratico e inerte a catalizzatore di nuovi investimenti commerciali – scrive la Mazzuccato – da realtà passiva che si limita a sollevare dal rischio il settore privato a soggetto attivo che accoglie di buon grado il rischio e se ne fa carico, in considerazione delle opportunità di crescita futura che questo offre, contro tutte le aspettative”.
Lo Stato è, dunque, secondo questa visione, il più affidabile investitore a lungo termine, che puntando sull’innovazione, crea un’economia che produce a sua volta innovazione. “In quasi tutte le innovazioni più radicali e rivoluzionarie che hanno alimentato il dinamismo dell’economia capitalista – afferma l’autrice – gli investimenti ‘imprenditoriali’ più coraggiosi, precoci e costosi sono riconducibili allo Stato”. In questo contesto, è agli Stati Uniti che l’autrice fa più spesso riferimento, concentrandosi su quattro esempi: la Darpa, il programma Sbir, la legge sui farmaci orfani e le nanotecnologie, per i quali l’elemento unificante è “l’approccio proattivo da parte dello Stato per dare forma a un mercato e incoraggiare l’innovazione”.
L’autrice sostiene la necessità di “un collegamento tra gli stimoli di bilancio propugnati da Keynes e gli investimenti in innovazione raccomandati da Schumpeter”. Affrontando il discorso in relazione all’Italia, emerge come ciò che oggi manchi allo Stato nel nostro Paese non sono le risorse, bensì la capacità di decisione. La volontà di rendere una scelta creazione. Lo Stato deve decidere di scegliere, di guidare lo sviluppo elaborando strategie per il progresso tecnologico in settori decisivi. La crescita c’è, infatti, dove esistono istituzioni finanziarie pubbliche, come accade in Cina o in Germania, dove le banche statali sono i principali investitori nel settore delle energie pulite e dell’innovazione tecnologia (dati Bloomberg).
In italia la situazione è complessa: da un lato vi sono le richieste di pareggio di bilancio e di contenimento del debito pubblico dell’Unione Europea, dall’altro la convinzione interna che lo Stato debba pesare meno sulla vita degli individui. Servono intelligenze pubbliche capaci di avviare i percorsi descritti dalla Mazzuccato, ma per invogliare le tante eccellenze italiane a innovare lo Stato bisogna riabilitare il ruolo chiave dello Stato stesso all’interno dei processi economici. La sua immagine, infatti, viene disgregata spesso da meccanismi burocratici incancreniti. Ma bisogna partire da una distinzione fondamentale: la burocrazia non è lo Stato, è il male dello Stato, è ciò che oggi impedisce allo Stato di essere veramente innovatore.
I libri costano troppo? Perché investire in cultura? Grazie a Laterza risponde Keynes