Continuano ad emergere nuovi particolari sul caso Morisi. Stavolta è il quotidiano Repubblica a svelare dei retroscena finora inediti. L’ex spin doctor di Matteo Salini, o qualcuno a lui molto vicino, avrebbe effettuato diverse chiamate al ministero dell’Interno. Telefonate che sarebbero avvenute pochi giorni dopo l’intervento dei carabinieri durante il festino a base di droga a casa di Morisi, il 14 agosto. Ma è mistero sull’identità dei funzionari del Viminale e su che cosa in realtà si siano detti.
Dal pomeriggio del 14 agosto all’1 settembre, giorno in cui Morisi rassegna le dimissioni da ogni incarico nella Lega, trascorrono 17 giorni. In quel periodo il protagonista della vicenda avrebbe cercato in tutti i modi di non far esplodere pubblicamente lo scandalo che avrebbe potuto mettere fine alla sua carriera. Tentativo che lui stesso ha poi capito essere vano. Sarà poi la stessa Repubblica a dare per prima, il 27 settembre, la notizia dell’indagine sul professionista.
Secondo la ricostruzione del quotidiano, già alla fine di agosto sulle chat interne di alcuni esponenti leghisti sarebbero cominciate a rimbalzare indiscrezioni, voci e allusioni sul festino a base di cocaina e ghb nell’appartamento di Morisi a Belfiore. Certo, i particolari emersi nelle ultime ore, non erano noti a nessuno. Ma le voci che “Morisi ha combinato un casino vicino a Verona” già si rincorrevano. Sempre secondo Repubblica, due dirigenti veneti del Carroccio avrebbero invece saputo che “tre persone sono state trovate con della droga a casa di Morisi. Sono intervenuti i carabinieri. C’è un indagine”.
Chi li ha avvertiti, si chiede il quotidiano? E poi, quella che viene definita una “fonte qualificata del Viminale” racconta alcuni particolari inediti. Luca Morisi, “o comunque persone che parlavano a suo nome”, dopo il 14 agosto avrebbe preso contatto con tre persone all’interno del ministero guidato da Luciana Lamorgese. Lo scopo di quelle chiamate sarebbe stato di verificare lo stato della sua segnalazione come consumatore di droga. Non quello di interferire con le indagini. Chiedendo anche il “massimo riserbo” agli inquirenti. Ma dal Viminale smentiscono e i nomi dei presunti destinatari delle chiamate restano ignoti.
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