Siamo sicuro che Matteo Salvini abbia davvero chiaro in testa il concetto di legittima difesa? Un’idea che non si limita alla semplice concetto normativo ma implica una riflessione più ampia, all’interno di confini che tanto al vicepremier quanto ai suoi accanitissimi sostenitori social non sembrano troppo noti. Con la premessa, doverosa, che l’argomento in sé è materia spinosa e i giudizi netti, assoluti fuori luogo.
Chi si trova a dover difendere la propria casa, i propri affetti famigliari, reagendo con un’arma di fronte alla minaccia portata da un estraneo si trova, infatti, a vivere sulla propria pelle una vera e propria tragedia. La sua reazione può essere compresa, certo, anche da chi non tiene pistole in casa ma non può non provare vicinanza verso una persona che, disperata, decide di reagire.
Ma il dibattito, ormai, si è lasciato alle spalle quel sottile confine che trasforma l’episodio, terribile, in un errore che può comunque essere capito, non condannato. Quella che la destra salviniana sta mettendo in campo in questi mesi è una campagna violenta, brutale, dove i concetti medi sono sulla seguente falsariga: “Se entri in casa mia con cattive intenzioni e ci esci con i piedi davanti, non è colpa mia”.
Immancabili, di fronte a frasi di questo tipo, gli osanna dei follower del Capitano. Che chiedono di poter sparare sempre e comunque ai ladri che si aggirano per le loro città, che siano armati o disarmati, in fuga o minacciosi. Si parte dalla legittima difesa, si sconfina in un territorio catalogabile più direttamente come “assassinio”. Con la benevolenza di politici che, invece di invitare alla sensibilità, colpiscono la pancia del loro elettorato, mai il cervello. Dimostrandosi più delinquenti dei delinquenti che vogliono combattere.
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