La montagna, alla fine, ha partorito poco più di un topolino. Dopo una giornata di altissima tensione tra gli Stati europei e la Turchia di Erdogan, i ministri degli Esteri hanno messo nero su bianco la parola “condanna” nei confronti dell’intervento armato in Siria, impegnandosi allo stesso tempo a delle prese di posizione forti sull’export di armi verso Ankara. Un modo per rispondere alla minaccia del leader turco, che aveva minacciato di inondare gli stati confinanti con milioni di rifugiati siriani. Un’iniziativa debole, rispetto alle premesse. Troppo debole.
Non può certo bastare la minaccia di un futuro stop all’esportazione di armi verso la Turchia, infatti, a mettere fine a quella che nelle intenzioni di Erdogan è una sostituzione etnica programmata. Bruxelles a mostrato ancora una volta il suo volto pavido: quello del Regno Unito, che per giorni non ha voluto saperne nemmeno di bollare l’invasione come “condanna”. Quello della Germania, della Bulgaria, degli Stati che circondano Ankara e che sarebbero i primi interessati da un’eventuale riapertura della rotta balcanica. Tutti a predicare calma, a chiedere tempo.
E d’altronde lo stop alle armi è passaggio importante ma non fondamentale, con l’esercito turco già perfettamente in grado di portare a termine il suo obiettivo. L’ipotesi avanzata dalla Francia, imporre sanzioni economiche a Erdogan, è caduta nel vuoto. Si è optato, piuttosto, per la conferma delle multe per le trivellazioni in acque cipriote, che colpiranno le aziende responsabili e non saranno subito operative.
C’è una discrepanza netta, troppo netta, tra un’Europa che urla la sua rabbia e il suo sdegno e un’altra che, all’atto pratico, si limita al minimo sindacale, senza affondare il colpo, senza una presa di posizione degna di questo nome. Compromessi sempre al ribasso, il termine “calma” tristemente abusato. A Bruxelles, purtroppo, manca il coraggio. Anche di fronte al sangue, che già scorre qualche chilometro più in là.
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