Martina Domenici sta lavorando come infermiera nel reparto di medicina d’urgenza all’ospedale di Piacenza e fino a una settimana fa era a quello Castel San Giovanni, adibito ai pazienti positivi al Covid-19. Ma fino a poco più di un mese fa era ancora una studentessa di 27 anni alla Scuola Mohole di Milano. Martina è specializzata in emergenza e pronto soccorso, ma ha sempre avuto la passione per le storie, quindi dopo la sua esperienza da infermiera durante il tirocinio post l’università, aveva messo in pausa la sua prima professione per frequentare la scuola di scrittura. A febbraio era tornata per qualche tempo a Rosignano, in provincia di Livorno, dove vivono sua mamma, sua nonna e il suo cane Jasmine. La scuola aveva già chiuso ma ci si poteva ancora muovere da una regione all’altra. Dopo poco l’emergenza Coronavirus è scoppiata quasi dal nulla: “Non potevo rimanere a casa. Sono un’infermiera, questo è il mio lavoro e sapevo di poter dare un contributo immediato anche grazie alla specializzazione in emergenza. Per questo ho lasciato Jasmine alla nonna e ho inviato il mio curriculum alle agenzie che stavano reclutando personale per gli ospedali. Ho iniziato a lavorare praticamente da subito”, ha raccontato la ragazza a Marieclaire.
Tornare a fare la dura vita di corsia non è stato semplice: “In ospedale l’altra notte avevamo circa una trentina pazienti. Non sono intubati, quelli sono in terapia intensiva, ma hanno la cosiddetta ventilazione meccanica a pressione positiva, quei caschi trasparenti che coprono la testa”. Martina ha confermato che dopo molte ore la mascherina fa allergia intorno alla bocca, il visore protettivo crea un cerchio intorno alla testa, la tuta diventa la tua seconda pelle: “Per questo facciamo a turno con i colleghi, a volte rimango vestita io per qualche ora, poi ci diamo il cambio: le foto che avete visto pubblicate nelle ultime settimane da medici e infermieri rappresentano davvero la realtà di tutti i reparti”.
Tuta, mascherina, visore, guanti. Quando entra così bardata nella stanza dei ricoveri, Martina riesce a fatica a fare due parole con i pazienti. Loro sono sotto il casco, che fa rumore, hanno l’affanno e spesso sono anche disorientati per la carenza di ossigeno. A volte cercano di staccarsi il supporto respiratorio. È un istinto perché si sentono qualcosa sulla faccia: “A volte riesco a scambiare due chiacchiere, c’è chi ha voglia di farti sapere che sta meglio, chi invece è in preda alla disperazione, chi cerca di sdrammatizzare: l’altro giorno un signore anziano voleva sapere se fossi fidanzata. Ho fatto una battuta e gli ho strappato un sorriso. Perché anche per noi diventa difficile scacciare lo sconforto che ormai abbiamo come appiccicato addosso”.
Medici e infermieri portano ogni giorno addosso un carico di stress molto forte, e in questo momento di difficoltà per Martina la cosa più difficile da sopportare è il non essere in grado di dare un sostegno morale e psicologico ai suoi pazienti, costretti soli in ospedale senza alcun contatto con la famiglia: “Quel senso di inutilità che a volte mi prende, soprattutto quando i pazienti chiedono un gesto di sostegno psicologico, una parola, una carezza. Chi viene ricoverato non vede nessuno tranne noi per parecchi giorni, non hanno contatti fisici. E con questi guanti non sentono la nostra mano sul viso: noi non abbiamo un solo centimetro di pelle esposta. Con questi visori e le mascherine non si vede nemmeno la nostra espressione, per questo impari a consolare con gli occhi”.
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