Nonostante la ripresa quasi completa delle attività commerciali con l’inizio della fase 2, a Milano non sono tornate a lavoro circa 150 mila persone. “Sono soprattutto lavoratori delle cooperative, oppure a chiamata, somministrati e tempi determinati all’interno delle cooperative”, ha spiegato Antonio Verona dell’Ufficio studi della Cgil. La stima è fatta incrociando più dati, dalla base Istat a quelle delle diverse casse integrazioni. È solo un fetta dell’intero mercato del lavoro, ma in una città come Milano il terziario è un settore trainante e pensando a questi numeri vanno lette le preoccupazioni del sindaco Beppe Sala che spiegava: “La mia preoccupazione è che, come ampiamente previsto, ma ora lo stiamo toccando con mano, qui andiamo verso una crisi economica e sociale profonda. Inizieranno le manifestazioni in piazza e la difficoltà di tante tante famiglie. La mia azione si concentrerà lì. Ne stiamo discutendo con il governo”.
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Secondo Marco Beretta, segretario della Filcams Cgil di Milano, la causa di questa ripresa parziale nel commercio, è a causa del personale ancora in cassa integrazione (circa la metà dei lavoratori), e questo perché tra la paura di andare in negozio e la mancanza dei soldi dei clienti che magari a loro volta non lavorano il giro di incassi è molto lontano da quello di prima”. Non solo, perché anche le catene della grande distribuzione organizzata stanno cominciando a mettere mano agli ammortizzatori sociali — è il caso ad esempio di Carrefour — specie in quei punti vendita in centri commerciali o non dentro i quartieri, dove quindi è mancata la clientela, tenuta nei paraggi di casa dal lockdown.
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Anche distaccandosi dalle attività commerciali il quadro non cambia, anzi peggiora. Molti alberghi sono rimasti chiusi o comunque sono abbondantemente sotto ai fatturati giornalieri di prima, visto che mancano turisti (che non si sa quando torneranno) e viaggi di lavoro. Oppure, altro settore spazzato via: le mense scolastiche. “Parliamo di gente che faceva 16 ore part-time a settimana guadagnando 600 euro al mese e che oltretutto aveva la sospensione scolastica per tre mesi dove non percepivano reddito – ha spiegato Beretta -. Ecco, è un dramma sociale vero e proprio, tra l’altro non sappiamo ancora come verrà garantito il diritto al pasto dei bambini, quando sarà: sono migliaia di donne, soprattutto, senza alcuna prospettiva per il momento”. Infine, si decanta lo “smart working”, ma anch’esso sta significando meno lavoro per bar, ristoranti, pizzerie, appalti delle pulizie e della sorveglianza, e così via.
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Alessandra Sensini, 39 anni, ha raccontato a Repubblica che da tre anni lavora in un negozio a Milano di corso Vittorio Emanuele, stipendio medio pre-Covid di 1.300 euro al mese: “Purtroppo ora che sembra quasi finita l’emergenza subentrano problemi diversi, ad esempio da noi stiamo facendo delle rotazioni tra i dipendenti, visto che non avrebbe senso tornare tutti con la forte diminuzione di clientela, ma queste rotazioni come vengono decise? Allora si finisce a discutere coi colleghi e i superiori, questo lascia una amarezza di fondo che si somma al periodo difficile che abbiamo vissuto”.
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