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Quel pasticciaccio brutto del “vincolo di mandato”. I 5Stelle e il “problema” democrazia

Questi sono gli ordini. Si è capito ormai che nel Movimento il concetto di “democrazia diretta” vuol dire: noi diamo gli ordini, voi eseguite. Sono un’organizzazione basata su vincoli ben precisi che limitano la libertà degli iscritti e dei deputati. Basti pensare agli impegni richiesti ai candidati che pur essendo declinati come morali, in caso di una loro violazione impongono il pagamento di penali salate se non addirittura l’espulsione del renitente, come in non pochi casi è avvenuto. E si torna a ragionare soprattutto sull’assurdità del “vincolo di mandato” che viola i principi costituzionali.

Non c’è dubbio che quella del rapporto tra eletti e partito di appartenenza sia una problematica irrisolta, alla quale peraltro l’intera compagine governativa non è indifferente… Nessuno ha dimenticato che, nella primigenia denominazione di Lega Nord, questo partito ha subito il ben noto “ribaltone”, ovvero la fuoriuscita di alcuni suoi parlamentari dalla coalizione di governo nella quale erano stati eletti alle elezioni del 27 marzo 1994. Ma ora il Movimento 5 Stelle porta una ventata di malsana novità.

Il punto è che non si può ricorrere ad artifizi pattizi per aggirare il divieto di mandato imperativo per il quale, a norma dell’articolo 67 della Costituzione, il parlamentare a tutela della sua indipendenza da qualsivoglia potere economico, sociale e politico non può aderire a disposizioni impartitegli da terzi, fosse anche il proprio partito. Il vincolo di mandato non è equivalente al contratto di mandato di natura privatistica, nel quale il mandatario è tenuto al rispetto dell’incarico ricevuto e a rendere conto del proprio operato.

Un legame così stringente non può essere imposto agli eletti, essendo la funzione di rappresentanza politica da loro svolta comprensiva di esigenze e principi nell’interesse, e per conto dell’intera nazione, piuttosto che per i propri elettori. Per questa ragione gli eletti devono agire nella massima libertà e autonomia e non vi sono strumenti giuridici che possano costringerli al rispetto di accordi oppure a rispondere innanzi all’Autorità giudiziaria del modo in cui hanno esercitato il loro incarico.

Si tratta di un principio introdotto formalmente per la prima volta con la Costituzione francese del 1793 e, a seguire, da tutte le altre europee tra le quale lo Statuto Albertino. Ma l’acme della concezione privatistica nella detenzione del potere pubblico è rappresentata dal contratto di governo. Uno strumento con il quale le forze politiche che lo hanno sottoscritto si sono vincolate al rispetto delle intese con lo stesso convenute. La sovranità è saldamente nelle mani del popolo che, seppure attraverso la delega, la esprime con la promulgazione di leggi.

Ciò a cui bisogna attenersi è piuttosto il suo esercizio nei modi e nelle forme previste dalla Costituzione. Soltanto questa e i principi che la ispirano debbono essere la guida di chi governa piuttosto che opinabili impegni contrattuali, ferma la consapevolezza che l’unica responsabilità loro imputabile è quella politica.

 

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