A distanza di pochi giorni dall’uscita su del nuovo film Mulan, remake live-action del cartone animato della Disney sull’eroina guerriera della Cina imperiale è già destinato a diventare una delle pellicole più controverse della storia. Posticipata l’uscita più volte a causa della diffusione mondiale del nuovo coronavirus, adesso fa parlare di sé ma non per la qualità artistica della pellicola. L’ostilità per Mulan si era impennata la scorsa estate durante le proteste di Hong Kong, quando la protagonista Liu Yifei, sinoamericana, ha preso posizione a favore della polizia. E in queste ore sul fuoco è arrivata altra benzina, quando in Occidente, dove il film è uscito lo scorso weekend in streaming, qualcuno ha notato che nei titoli di coda i produttori ringraziano otto diverse autorità dello Xinjiang, la provincia cinese dove è in corso una campagna di rieducazione forzata sulla minoranza musulmana degli uighuri. La notizia che la pellicola è stata girata proprio nei luoghi di quella che molti denunciano come una violazione dei diritti umani, e che i funzionari protagonisti della repressione si beccano un “grazie” in mondovisione, ha moltiplicato gli inviti a #BoicottareMulan.
Così nel tentativo di conquistare nuovo pubblico in Cina senza alienarsi gli spettatori di altre parti del mondo, Mulan, la ragazza che per difendere il suo popolo sfida le convenzioni della Cina del sesto secolo e diventa guerriera, si è trasformata in un simbolo tutto diverso. Contro l’appello #BoycottMulan, i mezzi d’informazione statali cinesi, nel frattempo, hanno risposto con la campagna di sostegno #SupportMulan sui social network. La campagna di boicottaggio ha poi raggiunto la Corea del Sud e il Giappone, prendendo nuovo slancio ad agosto, dopo che la polizia ha arrestato l’attivista di Hong Kong Agnes Chow, in base alla nuova legge per la sicurezza nazionale della città.
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