No, non ancora tutto è chiaro. Anzi, quasi nulla è chiaro. Da quel maledetto giorno in cui un barcone con a bordo 180 persone ha fatto naufragio al largo delle coste calabresi, la vicenda è stata al centro dell’attenzione del dibattito politico e dell’opinione pubblica, con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi chiamato a rispondere alle domande sulla gestione dell’emergenza.
Nelle sue dichiarazioni, Piantedosi ha cercato di autoassolversi e di scaricare la responsabilità sugli altri attori coinvolti, senza fornire risposte soddisfacenti alle domande chiave: chi ha deciso che le motovedette della Finanza, e non i mezzi specializzati della Guardia costiera, avrebbero dovuto controllare il barcone segnalato da un aereo di Frontex? Chi ha deciso di avviare un’operazione di polizia e non di soccorso?
Piantedosi ha anche fatto affermazioni false, ignorando prassi consolidate nel soccorso in mare. Ha affermato che l’attivazione di un soccorso non può prescindere dalla segnalazione di una situazione di emergenza, ignorando le regole del Piano Sar in vigore e le linee guida della Guardia costiera che prevedono che tutte le imbarcazioni che trasportano migranti debbano essere considerate subito in distress.
Piantedosi ha anche ignorato il fatto che il caicco avvistato dall’aereo di Frontex era stato classificato come barca di migranti dalle sale operative informate e che, diversamente, non sarebbe stata disposta un’operazione di polizia.
Le affermazioni di Piantedosi hanno suscitato indignazione e incredulità, e il ministro ha cercato di scaricare la responsabilità sugli scafisti e sui migranti stessi. Tuttavia, la sua mancanza di risposte e di chiarezza sulla gestione dell’emergenza ha sollevato molte domande sulla preparazione e sulla capacità del governo italiano di gestire le emergenze in mare. La vicenda del naufragio di Cutro dimostra ancora una volta l’urgente necessità di adottare politiche e prassi più umane ed efficaci per salvare le vite di chi tenta di attraversare il Mediterraneo.