I tifosi italiani lo ricordano per il suo storico gol all’esordio contro il Ghana, ad aprire la cavalcata trionfale dell’Italia di Lippi ai Mondiali di calcio 2006 poi vinti in finale con la Francia. Oggi Vincenzo Iaquinta, ex Udinese e Juventus, urla di rabbia fuori dall’aula del tribunale, condannato a due anni nel processo Aemilia contro la ‘ndrangheta al nord. Per lui la Dda aveva chiesto sei anni, per reati legati al possesso di armi.
“Il nome ‘ndrangheta non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia. Non è possibile. Andremo avanti. Mi hanno rovinato la vita sul niente, perché sono calabrese, perché sono di Cutro” ha urlato Iaquinta sotto gli occhi dei giornalisti riuniti per seguire il processo. Con lui è stato condannato anche il padre Giuseppe: 19 anni per associazione mafiosa. I due sono usciti dall’aula prima della lettura delle sentenze, in totale 125.
“Sto soffrendo come un cane, per la mia famiglia e i miei bambini senza aver fatto niente” ha ribadito l’ex calciatore. Nei suoi confronti era caduta, in primo grado, la presunta aggravante di associazione mafiosa. L’attaccante era stato trovato in possesso di un revolver Smith&Wesson calibro 357 magnum, oltre a una pistola Kalt-tec 7,65 Browning e a 126 proiettili. Lo stesso Iaquinta ne aveva denunciato il possedimento. L’accusa è però relativa alla cessione della sua personale santabarbara al padre Giuseppe, al quale il prefetto aveva proibito il possesso di armi.
Il motivo della decisione nei confronti di Giuseppe, padre di Vincenzo, risiedeva nelle sue frequentazioni: gli inquirenti avevano scoperto amicizie particolari con presunti affiliati alla ‘ndrangheta. Tutto è rientrato poi all’interno del processo Aemilia: iniziato ufficialmente il 28 gennaio 2015, ha portato all’arresto di 160 persone in Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia.
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