L’obsolescenza programmata è un vero e proprio tabù della società contemporanea, una sorta di verità rivelata che resta nascosta nei meandri di una foresta di dubbi e domande.
Quante volte vi è capitato di sentire persone anziane ripetere questo ritornello:
“Ai miei tempi gli oggetti duravano di più!”
Ma che cosa s’intende per oggetti?
La morale di persone navigate, con l’esperienza dettata dagli anni che passano, spesso abbraccia tutto lo scibile umano, e per oggetti si potrebbe intendere praticamente tutto!
Ma c’è un punto su cui s’insiste con fervore: la durata degli elettrodomestici.
Secondo i racconti dei nostri genitori, o per i più giovani, dei nonni, ai loro tempi esistevano macchine indistruttibili: televisori in grado di sopravvivere millenni, forni elettrici capaci di resistere a cicloni ed uragani, lavatrici che non si bloccavano neppure durante il più devastante dei diluvi universali.
Ci scherziamo su, con un tono un po’ ironico, ma si tratta, effettivamente, della verità.
La tecnologia che avanza, inesorabile, regalandoci robot autonomi con un’intelligenza che può interagire con la mente umana, ha raggiunto picchi impensabili, in tempi brevi, si compiono salti immensi verso l’impossibile.
Eppure, ormai, un frigorifero non va avanti più di un paio d’anni!
Come possiamo spiegarcelo?
Alcuni scienziati si sono dedicati allo studio di questo particolare fenomeno, che il mondo ha iniziato a chiamare “obsolescenza programmata”.
La teoria, secondo molti, ampiamente dimostrata, è che i microchip, o meglio, i circuiti integrati (IC), all’interno degli elettrodomestici, che rappresentano l’intelligenza del macchinario stesso, possano essere modificati per conferire una vita limitata al dispositivo.
Cerchiamo di spiegare meglio: ogni oggetto elettronico possiede un firmware, il vero e proprio cervello della macchina, da qui partono gli impulsi per ogni attività, vengono stabilite le reazioni ad ogni comando esterno (pulsanti, interruttori, leve, regolatori ecc..), la gestione di queste sezioni, permette ad un programmatore di stabilire anche quando l’elettrodomestico deve smettere di funzionare.
Perché?
Ovviamente per motivi economici.
La società del consumismo, che ha inglobato ogni aspetto della vita umana, è regolata da un costante ricambio di prodotti: un’interminabile partita a ping-pong tra domanda ed offerta, che si affrontano senza esclusione di colpi.
Come raggi infiniti di un cerchio che è un eterno ritorno, nuovi prodotti devono sostituire i precedenti, per permettere alle fauci del mostro economico di riempirsi costantemente e far girare la Terra intorno al Sole.
Facciamo un esempio banale: abbiamo acquistato un televisore HD, ma la tecnologia, dopo pochi anni, sprigiona la potenza del SuperHD.
Per essere sicure che il consumatore resti al passo coi tempi, le aziende devono far sì che ce ne sia la stretta necessità: per questo si ricorre all’obsolescenza programmata.
I problemi di questo circolo pericolosamente vizioso non sono soltanto legati alla morale: distruggono in mille pezzi il concetto di “riparazione”, cancellando dalla superficie terrestre un vero e proprio mestiere, fino a pochi anni fa, indispensabile e redditizio, ma soprattutto ingolfano il mondo di rifiuti elettronici.
Questa enorme massa informe di oggetti abbandonati, non può essere distrutta né smaltita, figuriamoci se può essere riciclata, per cui, questo processo dona all’umanità una quantità immane di plastica, ferro, acciaio e altri materiali dal micidiale potere inquinante, il tutto, attorcigliato da milioni di chilometri di fili elettrici.
Per condurre la nostra inchiesta ci siamo avvalsi del prestigioso parere di Emanuele Bonanni, https://www.linkedin.com/in/emanuelebonanni/ electronic designer con più di vent’anni di esperienza nel settore, studioso nel campo dell’obsolescenza programmata. http://it.emcelettronica.com
Abbiamo fatto alcune domande al dottor Bonanni riguardo a questo delicato argomento, naturalmente, oggetto di omissioni sistematiche da parte dei grandi marchi elettronici, che prontamente glissano sul tema, sfoggiando enormi orecchie da mercante.
Dottor Bonanni, questi microchip, inseriti all’interno degli elettrodomestici, sono effettivamente ed inequivocabilmente riconoscibili?
I chip o meglio, i circuiti integrati (IC) all’interno degli elettrodomestici sono facilmente riconoscibili.
Nello specifico i microcontrollori sono presenti sempre di più, in quasi tutti gli apparati, dal termostato alla lavatrice, dal telecomando che apre il cancello, alle centraline di allarme e così via.
I microcontrollori sono il “cervello” del dispositivo perché sono programmabili e quindi gestiscono tutte le funzioni principali.
Servono competenze speciali per creare questi circuiti, o basta un semplice programmatore?
Per progettare una scheda elettronica servono competenze da progettista elettronico, in particolare il firmware (software per microcontrollori) viene scritto da esperti nella programmazione embedded.
Negli ultimi anni, con lo sviluppo di piattaforme come Arduino, le conoscenze dei microcontrollori si sono ampiamente diffuse anche tra i non addetti ai lavori.
Se possiamo riconoscere i circuiti e riscontrare la loro presenza negli elettrodomestici che usiamo quotidianamente, come fanno le grandi aziende a ribattere dicendo che non è vero?
Bisogna fare una doverosa distinzione: avere a bordo un microcontrollore e quindi un firmware, non significa che nel firmware ci sia un contatore che ne blocca il funzionamento.
Inoltre, il firmware è protetto dalla lettura e quindi solo l’azienda che lo produce, lo può visionare.
C’è stato, però, un caso che ha aperto la strada a grandi manovre di studio ed aggiornamento, nel campo dell’obsolescenza programmata.
Venne riscontrata un’anomalia nelle cartucce per stampante di un’azienda del settore.
Si scoprì che, perfino le cartucce possedevano un circuito integrato che ne stabiliva le proprietà, gli esperti riuscirono a capire che erano state programmate per bloccarsi quando l’inchiostro giungeva alla soglia del 20%.
C’era dunque ancora una buona parte di materiale utilizzabile nel dispositivo, che però si bloccava e veniva gettato via anzitempo, favorendo l’acquisto di una cartuccia nuova.
Un altro caso molto simile è rappresentato dallo scandalo “Dieselgate” Volkswagen dello scorso anno, il concetto è praticamente lo stesso.
Come si può combattere questo fenomeno, esistono, che lei sappia, aziende che assicurano i clienti sotto questo aspetto?
La soluzione è possibile, e si chiama open source.
Se i firmware fossero tutti open, quindi leggibili, allora non potrebbero esistere fenomeni di obsolescenza programmata, o addirittura, non esisterebbero trucchi per passare le normative, come appunto scandalo Dieselgate.
Purtroppo però, le aziende blindano i loro microchip perché difendono la proprietà intellettuale del firmware, ma considerando i benefici delle applicazioni open, sarebbe opportuno che riconsiderassero queste chiusure.
E’ vero che realizzare un firmware costa parecchie ore lavoro, ma è anche vero che, lavorando in un contesto open source, i costi di progettazione sarebbero molto minori.
Allo stesso tempo, a livello commerciale, un’azienda open avrebbe sicuramente maggior successo.
Voi comprereste un elettrodomestico open, oppure ne comprereste uno chiuso dove nessuno può sapere se dopo un paio di anni ve ne sia volutamente limitato il funzionamento?
Il fenomeno dell’obsolescenza programmata, dunque, può essere arginato, serve un’urgente sensibilizzazione sul tema, necessitano limpidezza, chiarezza, trasparenza, per un sistema che oltre a programmare la vita di un elettrodomestico, sta programmando la sua stessa deriva.
Non si deve soltanto pensare al consumatore, vittima di uno schema beffardo ed ingannevole, costretto a gettare al vento i propri risparmi: questo è solo il problema secondario.
Il nodo reale della questione è l’ingestibile massa di oggetti messi fuori uso, che costituiscono un fardello impressionante per chi abiterà la Terra in futuro.
Esiste già una discarica di elettrodomestici a cielo aperto, in Africa, precisamente in Kenya, negli ultimi anni è stato addirittura sacrificato un intero atollo delle Maldive, divenuto una disfattura a grandezza naturale.
È vero che non ci sono dubbi sul fatto che l’umanità stia abusando incessantemente del pianeta senza alcun rispetto, ma ad ogni scempio dev’esserci necessariamente un limite.
Si tratta di un affare ormai smascherato e palese, pertanto non resta che la via della “presa di coscienza” da parte dei colossi industriali: l’uomo è alla soglia della macchina volante, costruisce case con una stampante 3D, fabbrica robot in grado di parlare e camminare, come può un frigorifero schiantare il giorno dopo la fine della sua garanzia di due anni?
Gianluca Parodi