Esempio micidiale di danni da processo mediatico. Macchina terribile che ha prodotto conseguenze personali per Tiziano Renzi, personali e politiche per suo figlio Matteo, politiche tout court per un ex partito di maggioranza, il Pd. L’inchiesta Consip arriva al punto di caduta più significativo visto finora: e si tratta di un nulla di fatto proprio per il padre dell’ex presidente del Consiglio. La Procura di Roma chiede per lui l’archiviazione e lui, nel giorno che dovrebbe essere il più bello, spiazza tutti con un lettera pubblicata (a pagamento) su La Nazione: “Mi chiamo Tiziano Renzi, ho 67 anni e una meravigliosa famiglia con dieci splendidi nipotini. Oggi dico basta”.
“Annuncio che vado in pensione, lascio ogni incarico, metto in vendita la mia società. Mi arrendo. Lo dico oggi proprio quando la procura di Roma chiede l’archiviazione sulla vicenda CONSIP dopo che per quasi due anni sono stato oggetto di polemiche quotidiane su tutti i media nazionali. Può sembrare strano che decida di arrendermi proprio oggi, proprio dopo una notizia che ho atteso per tanti mesi. Ma c’è un perché”.
“Quarant’anni fa ho lasciato il posto fisso di insegnante nella scuola pubblica perché volevo mettermi in gioco. Volevo creare posti di lavoro. Ricordo lo sguardo perplesso di mio padre quando firmai le dimissioni dal posto a tempo indeterminato. Siamo sempre rimasti una delle tante piccolissime aziende italiane. Non abbiamo mai superato i dieci dipendenti. Ma arrivare alla fine del mese e pagare gli stipendi era una soddisfazione che non riesco a spiegare. Mi sembrava di dare il mio contributo per rendere il nostro Paese migliore. Ho pagato l’equivalente di decine di milioni di euro di tasse, senza un condono: mi sento fiero di essere cittadino italiano, anche per questo”.
“Fino a quattro anni fa non ho avuto nessun problema con lo Stato italiano. Al massimo ho pagato qualche multa per eccesso di velocità, nient’altro. Dal 2014 la mia vita è cambiata. Ho conosciuto il dolore di chi viene accusato, sa di essere innocente, eppure è su tutte le prime pagine. Mi sono sentito stritolato dagli sguardi, dai commenti, dall’odio. È un’esperienza che non riesco a spiegare ma che non auguro a nessuno di vivere. Ho sempre viaggiato molto ma confesso che avevo paura di fermarmi persino agli autogrill perché mi sentivo addosso lo sguardo polemico di persone che mi giudicavano colpevole senza aver mai letto una carta. Senza sapere nulla”.
“È iniziata una odissea di avvisi di garanzia, indagini, inchieste. La mia vita è stata passata da mesi ai raggiX. Ho sempre ribadito la mia totale fiducia nella magistratura italiana. Per adesso sto collezionando archiviazioni delle indagini contro di me e condanne in sede civile per chi mi ha diffamato, come accaduto recentemente anche con il direttore del Fatto Quotidiano. Ma serviranno ancora molti anni sia per i processi contro di me, sia per le azioni civili che ho intentato e sto intentando contro chiunque abbia leso il mio onore. Purtroppo i tempi del business sono diversi dai tempi della giustizia”.
“E io non posso più continuare a lavorare: la mia azienda è stata accusata ingiustamente di tutto e ha perso clienti molto importanti, che se ne sono andati dopo le anticipazioni dei giornali. Non hanno aspettato l’archiviazione, loro. Sono paradossalmente diventato il tallone di Achille della mia squadra: per colpa mia, i clienti se ne vanno. Vivo questa condizione con un misto di ingiustizia e rabbia che mi fa male. Per garantire il posto di lavoro ai collaboratori, tuttavia, ho deciso di farmi da parte e ho dato incarico a un team di professionisti di vendere la società da qui alla fine dell’anno”.
“Mi arrendo, lascio ogni incarico, vado in pensione e tra un’udienza e l’altra farò il nonno. Sperando che chi ha preso di mira me e la mia famiglia si concentri su di noi e lasci stare le altre famiglie che hanno bisogno di uno stipendio per arrivare alla fine del mese. Il business è solido e un nuovo proprietario potrà garantire l’occupazione. Me ne vado a testa alta. Hanno condannato chi mi ha diffamato, non me. Ma devo andarmene per rispetto a chi lavora con me. Sono stati 40 anni di lavoro difficile ma bellissimo. Dico grazie a tutti quelli che hanno fatto un tratto di strada con noi. E in bocca al lupo a chi verrà dopo di noi. Tiziano Renzi”.
Una settimana fa la condanna di Marco Travaglio che, insieme ad altri giornalisti del Fatto quotidiano, dovrà risarcirlo con 95 mila euro per alcuni articoli scritti ai tempi in cui era indagato per bancarotta (il procedimento è stato poi archiviato). La “caccia al babbo” è stata una delle costanti dell’inchiesta portata avanti da John Henry Woodock con il supporto del capitano del Noe Gianpaolo Scafarto.
Lo stesso Renzi, a suo tempo, aveva commentato: “Mi viene da pensare che tutto ciò accada per colpa mia, a causa del mio impegno in politica”. Di certo c’è che, secondo la stessa procura di Roma che oggi chiede l’archiviazione di Tiziano Renzi, Scafarto avrebbe manomesso atti investigativi compiendo “orrori di sicuro rilievo penale” – qualificati invece dal tribunale del Riesame come “errori involontari” – con il deliberato obiettivo di incastrare il padre dell’allora presidente del Consiglio.
Scafarto dovrà difendersi dalle accuse di rivelazione del segreto d’ufficio, falso e depistaggio in concorso con il colonnello Alessandro Sessa. Insomma la giustizia prosegue il proprio corso.
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