Paola Turci non le manda mai a dire. Nemmeno a Salvini e al governo. “Non mi piace il clima da Medioevo, in cui si fanno distinzioni in base al colore della pelle, in cui – in nome della ‘difesa della famiglia’ con un prossimo congresso a Verona, su cui perfino la Chiesa ha espresso le sue perplessità – si rimette in discussione la legittimità delle unioni civili. Vi sembra normale che un ministro della Repubblica, Matteo Salvini, che mette bocca su tutto al di là delle sue prerogative, e chiede di non essere processato, possa portare in giudizio uno scrittore, Roberto saviano, reo di averlo criticato con la stessa veemenza cui il ministro ci ha abituato sui social?”.
Da atea incise un brano, “Ringrazio Dio”. Poi, dopo un incontro con papa Giovanni Paolo II, ha scoperto il dono della fede, salvo fare marcia indietro. “Credo in Dio, ma senza più quegli aspetti dogmatici che avevo accettato nel momento in cui avevo abbracciato la religione cattolica, a cominciare dall’ indissolubilità del vincolo matrimoniale. Dio ci vuole felici. E io ho imparato non più a chiedere, ma solo a ringraziare. Di essere viva. Viva da morire”.
Lei che non si vedeva bella, ha cominciato a sentirsi tale dopo quella carambola in autostrada, quando in ospedale, vedendo una sua foto sul giornale, ha giurato a sé stessa: “Non dirò mai più che sono brutta, mai più. Fino a un certo punto ci ho convissuto, con il senso di inferiorità rispetto alla bellezza e all’altezza di mia sorella Francesca e a mia mamma, che rifiutò di partecipare a Miss Italia. Con la mia nonna adorata, che mi ricordava come non a caso Paola in latino volesse dire piccola”.
Nelle memorie dei suoi primi 50 anni è stata spietatamente sincera. A cominciare dalla rievocazione di un grave disturbo, che qualcuno assimila all’anoressia. “La mia patologia era l’emetofobia, la paura di vomitare. Mi colpì a 16 anni, dopo una gita in barca in cui vidi mia madre star male e vomitare, e innescò un processo che, per paura della nausea, mi avrebbe portato ad assumere medicinali e mangiare poco per circa un anno e mezzo. Arrivai a pesare meno di 50 chili, le costole tutte di fuori, da cui il soprannome ‘cane secco’”.
Nella sua autobiografia racconta di incontri significativi: come quello con Adriano Sofri. Prende posizione, su di lui e sulle questioni più stringenti di attualità politica. “Non sopporto l’ipocrisia di chi talvolta si nasconde: ‘Non parlo di politica’. Ormai se uno cerca di proporre un ragionamento o una riflessione, tanto più se da sinistra, si scatenano gli oscurantisti: ‘Pensa a cantare’, ‘Sei una radicalchic’, di solito aggiungendo ‘di merda’, ‘la pacchia è finita’, fino al risolutivo: ‘Stai zitta, troia’”.
“Sono andata a trovare Sofri in carcere più volte, ho letto libri sulla sua storia. Ha accettato stoicamente la pena senza aspettarsi provvedimenti di clemenza. Era conseguente: ‘Sono innocente, se chiedessi la grazia sarebbe un’ammissione di colpa’”.
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