E per fortuna che era intenzione del Governo Meloni tassare i “profitti giusti” delle banche italiane. Stiamo parlando della tassa sugli extraprofitti che, in pratica, è un altro di quei paradossi all’italiana: grazie all’imposta, infatti, le banche italiane hanno guadagnato 3-4 miliardi in più. In pratica, gli istituti invece di versare l’imposta hanno optato per un incremento delle riserve, dimezzando così l’accantonamento sui crediti e facendo crescere ulteriormente gli utili d’esercizio per un 15% circa.
Un bonus piovuto sul bagnato, dopo che al traino dei tassi Bce i margini d’interesse realizzati dalle banche sugli attivi hanno prodotto utili netti di quasi 25 miliardi, circa due terzi più che nel 2022. Nei prossimi giorni, scrive Repubblica, le banche quotate a Piazza Affari pubblicheranno i fascicoli di bilancio, e si vedrà con chiarezza la “voce 30” che misura il margine d’interesse. Proprio l’incremento della “voce 30”, rispetto ai bilanci 2022 o 2021, determinerebbe l’imposta dovuta entro giugno 2024.
Tuttavia, il 23 settembre il Tesoro introdusse l’opzione alternativa al pagamento: basta che le banche creino “una riserva speciale non distribuibile 2,5 volte superiore all’importo dell’imposta dovuta”. Chi in futuro vorrà distribuirla agli azionisti, ci pagherà sopra la tassa: altrimenti i soldi restano a rafforzare il patrimonio. Tutti gli istituti hanno scelto, come ovvio, questa strada. La “voce 30” dei vari istituti potrebbe presentare variazioni – spiega Repubblica -: dipenderà anche dai costi di finanziamento (molte banche a dicembre hanno restituito miliardi di fondi Tltro alla Bce, non più gratuiti dalle modifiche autunnali), e dell’effettiva consistenza dei portafogli in Btp, che gonfiano i margini.
Le analisi degli esperti bancari
Dopo il blitz governativo dello scorso agosto, comunque, diversi analisti bancari stimarono possibili esborsi fino a 2,5 miliardi per il settore, riporta il quotidiano. E la stima, pur non confermata dal governo, fu avvalorata dalle cifre fornite da Intesa Sanpaolo (che indicò 828 milioni di imposta dovuta), Unicredit (440), Mediobanca (90), Banco Bpm (151), Popolare di Sondrio (43), Credem (38), Mcc (14 milioni), Mps (125), Bper (126) e Crédit Agricole Italia (87). L’aggregato della decina era quasi 2 miliardi, per un totale settoriale vicino ai 2,5 miliardi. A conti fatti, secondo qualche addetto ai lavori, il monte dell’imposta in teoria dovuta sarà un po’ più alto di 2,5 miliardi: e la “riserva non distribuibile” di 2,5 volte dovrebbe ammontare tra 6,5 e 7 miliardi per il settore.
Proprio la nuova riserva, che vale anche come argine a fronte dei rischi – e quello di credito è il maggiore – consente ora ai banchieri di limitare gli accantonamenti specifici a fronte di perdite su crediti. Sui conti 2023 delle cinque maggiori banche (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Bper, Banco Bpm) la voce accantonamenti è scesa del 47%, da 6,7 miliardi a 3,5 miliardi aggregati, pari a 3,2 miliardi di riserve in meno. Eppure i crediti deteriorati netti, come ha calcolato la First Cisl, per i cinque istituti sono scesi solo di 1,5 miliardi, l’8%. Anche il rapporto tra crediti deteriorati e totale attivo del sistema è stabile, sceso dall’1,5% all’1,4%.
Insomma, c’è tale abbondanza di profitti che le banche possono agevolmente rimpinguare patrimonio e riserve – limitando le obbligatorie sui crediti grazie alla messe di miliardi stanziati per evitare la “tassa extraprofitti” – erogare dividendi e buyback da favola (il rendimento medio del settore eccede il 13% nel 2023).